che cos’è la verità?

Una storia quasi perfetta, l’ultimo romanzo di Mariapia Veladiano pubblicato da Guanda, può scivolare facilmente nel cliché dell’ennesimo romanzo sull’amore tradito, con la donna vittima dell’illusione e l’uomo anaffettivo e manipolatore. È un’interpretazione letterale, quella che si ferma alla superficie, che assegna a ogni romanzo l’etichetta di un genere: lei, Bianca, insegna in un liceo delle arti ma nel contempo disegna fiori bellissimi, eterei, esclusivi. Lui è il proprietario di un’agenzia di design e come sempre fa, pretende per sé non solo l’arte ma anche l’artista, le creazioni e chi le ha create, annullando, arbitrariamente, le distanze tra le une e l’altra, sovrapponendole, confondendole, forse perché a sua volta confuso dalla sublime spiritualità di lei, dalla sua genuinità, dalla trasparenza del suo sguardo sulla vita e sul mondo.

Certo, si può leggere, e intendere, anche così. Oppure si può scegliere di leggere l’allegoria dell’ispirazione amorosa come materia artistica, o, ancora, ricordare quanto diceva Hermann Hesse: «L’amore non esiste per rendere felici. Io credo che esista per dimostrarci quanto sia forte la nostra capacità di sopportare il dolore» (H. Hesse, Sull’Amore, Mondadori, traduzione di Bruna Bianchi).

Quale che sia la scelta del lettore, non è in dubbio che essa sarà dettata da una “corrispondenza di amorosi sensi”, quale sempre è la disposizione del rapporto che avvicina un libro al suo lettore. Ma l’autrice? Come risponde l’autrice alle interpretazioni del lettore? Ecco come Mariapia Veladiano ha risposto ad alcune nostre domande.

“Quasi” è, non a caso, la parola chiave di questo romanzo. La perfezione non esiste, eppure ci illudiamo di trovarla, come l’amore, come la felicità che, nella storia, lei definisce “esagerazioni”. E dunque in quale rapporto si può dire che siano tutti questi elementi nella storia?

Esagerazione è pretendere perfezione e felicità e pensare che la vita, l’amore, il lavoro o sono perfetti o non sono niente. Per cui si vive aspettando questa perfezione immaginata, dell’essere belli (belli come il tremendo falso e costruito immaginario comune ci vuole), ricchi (meglio ricchissimi, e si sogna il colpo di fortuna), giovani sempre, in forma sempre e così via. Ma essere aperti alla vita che arriva, lasciarsi attraversare dalla vita, è una forma di perfezione. Certo chiede coraggio perché la vita arriva come arriva, con il suo sciame di bene e male. Bianca, la protagonista del romanzo, ha conosciuto un primo inganno, che però le ha lasciato la perfezione di Gabriele, figlio particolare, bello e particolare.

Nel romanzo, bellezza e armonia hanno un peso specifico rilevante che si riflette anche nello stile e nella costruzione, la cui raffinatezza è esaltata proprio dall’apparente leggerezza e semplicità. Cos’è dunque la bellezza, nella sua accezione più ampia, per Mariapia Veladiano?

È tutto ciò che dà vita, permette di continuare a vivere, ripara la vita, la rende possibile dopo che qualcosa di tremendo è capitato, come avviene nel romanzo per Bianca, che si circonda di bellezza, ricrea un paradiso dopo che un vecchio sconcio professore si è insinuato nel suo confuso desiderio d’amore. I fiori che disegna e che coltiva hanno questa funzione riparatrice, anche protettiva. Credo che “bello” abbia sempre a che fare con buono. La lingua ci aiuta in questo. “È una bella persona” non significa che la persona è bella secondo il canone giovane, stretto, ridicolo che ci ossessiona, vuol dire invece che la persona mi dà qualcosa di buono, quale che sia la sua età o il suo aspetto. Ho sempre pensato che sia molto molto difficile amare la vita quando si è circondati dal degrado e dalla sciatteria. Penso al degrado del nostro paesaggio urbano. Tutto si tiene nella nostra vita.

Il nome è forse il primo tassello dell’identità dell’individuo. Nel romanzo tutti hanno un nome eccetto il protagonista maschile. Può spiegarci il perché di questa scelta? E cosa, o meglio, chi si nasconde sotto il «seduttore», il «dongiovanni»?

Lui non merita il nome, nemmeno quel “Giovanni” che sua madre avrebbe voluto dargli a ricordo di un amore passato e quindi di un tradimento. Quest’uomo che Bianca incontra è orribile non perché seduce ma perché è falso anche in quello che potrebbe essere il gioco della seduzione. Lui seduce manipolando la bellezza, rubando le parole. Ha bisogno di circondarsi di vittime perché gli serve la loro energia. È un seduttore cupo.Che cos’è la verità? Intervista a Mariapia Veladiano

Le parole sono molto importanti nella storia, la loro scelta, l’uso, il riuso. E sono potenti. Cosa conferisce potere alla parola?

Il suo rapporto con la verità. Sia che la parola sia pronunciata per dire sia che venga usata per mentire. La parola seduce molto più dell’aspetto e della ricchezza. Anche più del potere e per questo il potere spesso si accompagna alla capacità di giocare con la parola. La parola è potente anche quando è manipolata e distorta e infatti Bianca sente il fascino delle parole di lui. È intelligente, avvertita, conosce l’inganno ma le parole sono potenti e lei così piena di vita lascia che anche questa vita la attraversi. E del resto l’amore è così, arriva e ci attraversa. Chi pensa che ci si possa sforzare di amare non sa cosa sia l’amore.Nella scrittura poi la parola è il suono, la forma della storia. Insieme fanno la narrazione. La magia di un romanzo che si fa leggere è questa corrispondenza fra suono delle parole e storia. Le parole giuste per raccontare la storia.

«La verità è moltitudine». «La verità è quando non hai paura». Cos’è, infine, la verità?

È moltitudine. Come l’essere e come l’amore.

«E qualsiasi umiliazione il sogno ti abbia fatto patire, la vita è più grande del tuo dolore». Ma non è la vita a ferire più dei sogni? In fondo, dai sogni ci si può risvegliare; la vita, invece, è una veglia senza scampo: Bianca non ha sognato la sua storia quasi perfetta, l’ha vissuta.

Ma ha sognato che fosse perfetta. Nel dialogo fra Bianca e la mamma si dice. Lei chiede perché i sogni fanno male e la mamma risponde «Solo quelli che vanno troppo in alto. Solo quelli che vanno troppo in alto. Come gli aquiloni quando il vento li strappa e poi cadono giù».Non si vive se non c’è il sogno che ci porta. Che vita è la vita rassegnata, ferma, ripetuta fin nei pensieri? Il sogno ci muove, ci anima, rende più leggero l’impegno, sopportabile la fatica. E poi il sogno è fratello del desiderio e nel desiderio abita un bel pezzo della verità di noi.

Secondo lei, può esistere amore senza dolore? Inoltre, lei traccia una distinzione tra amore e desiderio: anche se volessimo intendere l’amore nella sua pura forma spirituale, può davvero esserci l’uno senza l’altro?

Ma certo, nell’inganno di una pubblicità abbagliante oppure nella confezione di un romanzo falso come un soldo di stagnola. Voglio dire che ci sono romanzi costruiti in modo che il dolore del tradimento o dell’attesa non corrisposta o semplicemente della disillusione rispetto allo splendore degli inizi sia una specie di accidente indolore e insapore, tanto poi tutto si aggiusta. Ma non è così perché i rapporti sono storie e le persone si trasformano. L’uno, l’altra, tutti e due. Quando le trasformazioni si allineano, le storie continuano, sono belle e piene ma non perfette, appunto. E poi la perfezione non è l’immobile contemplare delle sfere celesti. È sentirsi vivi e amabili. Abbastanza, almeno.

Come afferma Bianca, a un certo punto del romanzo, le donne (soprattutto quelle di oggi, aggiungerei) sono “determinate, razionali, libere, studiano, viaggiano”; qualcuno direbbe che si sono emancipate. Eppure: «Poi, o prima, o durante o dopo ci prende la follia per un uomo, proprio quello che non ci vuole o ci vuole per un momento […] Non caschiamo innamorate, come elegantemente dicono i francesi. Caschiamo e basta. […] Perché è intollerabile non essere nessuno per nessuno». Ma è davvero per questo? Perché non “tolleriamo di non essere nessuno per nessuno” (nel qual caso sarebbe una contraddizione con il senso stesso dell’emancipazione, non crede?), o piuttosto è un bisogno naturale, biologico. O, ancora, un retaggio culturale perpetuato ancora oggi dalla letteratura, dal cinema, dalla tv, dove ancora, e forse per sempre, l’amore è oggetto e soggetto sovrano?

Guardi, credo che il bisogno di essere unici, di sentirsi pieni di valore, quali che siano le nostre origini, il nostro aspetto, la nostra cultura, la nostra ricchezza, credo che questo bisogno sia in tutti. «Sei prezioso ai miei occhi, degno di stima, io ti amo, non temere perché io sono con te». Sono le parole di Isaia 43. È Dio che parla qui. Chi può vivere se non è riconosciuto? Lo vediamo a scuola nei bambini, e ogni giorno nelle nostre vite. Credo che la differenza fra uomini e donne sia oggi in parte in un’educazione che inchioda a stereotipi di genere per cui le donne ancora, purtroppo, sono (male) educate ad aspettare il riconoscimento dall’uomo invece che dai molti rapporti di lavoro e amicizia che sanno costruire. C’è tutto un mondo di stereotipi pubblicitari, letterari, del cinema che porta a questo. I nostri desideri sono universali ma l’immaginario in cui si coltivano è storico, eccome. E poi credo che ancora molti uomini riescano a nascondersi la verità nella loro corsa forsennata verso il potere perché oggi, ancora, il potere statisticamente è maschile e così confondono l’ossequio, che sempre circonda il potere, con il riconoscimento. Come il protagonista del romanzo. Era orribile ma si illudeva di non saperlo.

di Sara Minervini

da Sul romanzo, 2 marzo 2016

Che cos’è la verità?

la seduzione delle parole

Mariapia Veladiano ambienta a Vicenza una vicenda d’amore “tra un lui grande manipolatore e Bianca, insegnante d’arte, già ferita dalla vita”

di Fabio Giaretta

Il seduttore non ha nome. Non lo merita. Proprietario di un’azienda di design che si affaccia sulla Piazza dei Signori a Vicenza, un giorno si imbatte in Bianca ed è colpito dalla sua purezza e dai suoi meravigliosi disegni. Vuole possedere lei e le sue creazioni. Comincia così a tessere la sua tela e a mettere in atto, come ha fatto molte altre volte, le sue raffinatissime strategie. Bianca è già stata ferita dalla vita. A poco a poco, però, decide di fidarsi, di affidarsi a quell’uomo che, come da copione, una volta ottenuto ciò che voleva, comincia a praticare l’arte del distacco. L’esito sembra scontato, ma questa volta non tutto andrà come il seduttore aveva previsto.

Questa, in estrema sintesi, la vicenda raccontata da Mariapia Veladiano nel suo ultimo romanzo, intitolato “Una storia quasi perfetta”, 238 pagine, in uscita oggi per Guanda, che l’autrice presenterà sabato 30 gennaio, alle 18, con Alberto Galla, al Galla Caffè di Vicenza. In questa nuova opera, Veladiano riesce a indagare, con penetrante lucidità e con uno stile finemente cesellato, a cavallo tra prosa e poesia, la banale quotidianità del male e le vie che si possono seguire per arginarlo e combatterlo.

“Il seduttore – racconta in anteprima al Giornale di Vicenza la scrittrice, preside dell’Istituto Boscardin – non è una persona rozza, insensibile; è un grande manipolatore e per poterlo fare deve conoscere molto bene l’arte della cura perché la deve praticare. Certo non gli viene da sé stesso, la sua è un’arte imparata, rubata. Ruba quasi tutto, anche alcune delle parole più belle che dice le ha rubate, le ha fatte sue e le usa per manipolare le persone che ha intorno”.

“Il seduttore non sa l’amore, vuole prendere quel che si può solo ricevere”. Quest’uomo, in fondo, può essere visto come una metafora della nostra società?

Trovo che questa struttura manipolatoria nei rapporti oggi sia molto diffusa. A me interessava vedere che cosa ci fa cadere quando si trova la realtà della manipolazione intorno a noi. Ci fa cadere l’arte dell’altro, praticata con consumata abilità dal seduttore, e il bisogno universale di riconoscimento. Questo bisogno è il varco nel quale si insinua il seduttore.

Oggi viviamo in una società paradossale: è molto individualista, quindi sembrerebbe esserci il massimo del riconoscimento, ma in realtà siamo tutti intruppati in categorie: i giovani che sono tutti irresponsabili, senza progetti, viziati, gli stranieri che son tutti nemici, gli impiegati tutti lavativi e così via. Domina il mucchio, non le persone singole, e nel mucchio non si è nessuno, quindi il bisogno di essere visti aumenta, e di conseguenza aumenta anche la disponibilità a essere manipolati.

Quando Bianca entra nello studio del seduttore, ha già il presentimento che tutto sia il preludio di qualcosa di disgraziato. Perché allora si lascia andare all’amore?

Perché non è mai tutto così netto e calcolato nella vita. Ci si può innamorare… Inoltre, lei intuisce, a ragione, che lui è innamorato. Che in lui sta succedendo qualcosa che supera la semplice manipolazione e che lo sta trasformando.

Fin dalla copertina del libro, che ha scelto personalmente, in cui si vede una cascata di foglie di cachi, risulta evidente il ruolo di primo piano che piante e fiori hanno all’interno del romanzo. Perché questa centralità?

Incarnano la ricerca della bellezza. Nel libro c’è un mondo di relazioni molto complicate, spesso segnate dalla cattiveria, dal cinismo, dalla superficialità. L’antidoto può essere costruire un mondo di bellezza e la natura, le piante sono una delle possibilità che noi abbiamo. Intorno a Bianca si muove un mondo un po’ malato e la bellezza della natura è in qualche modo la sua possibilità di guarigione. Inoltre le piante e i fiori richiedono una cura particolare, che è la stessa cura che richiede la vita. Oggi manca un’educazione alla cura, al sentimento. Il passaggio fondamentale per essere davvero felici è sapere chi si è attraverso la cura degli altri, è sapere che grazie a noi, il mondo che ci circonda può diventare un po’ migliore.

Rebecca, Ildegarda, Bianca, le tre donne protagoniste dei suoi tre romanzi sono molto diverse, ma sono tutte accomunate da una sorta di purezza che le solleva dal mondo circostante. Come mai la scelta di figure così incontaminate?

In verità Bianca è abbastanza contaminata, viene da una storia precedente di seduzione. Certo è fuori dalle logiche del successo, il suo è un mondo a parte che si è costruita come nuova vita rispetto a quella da cui è dovuta emergere. Un po’ tutte e tre hanno in comune un dolore che le ha colpite: per Rebecca il non riconoscimento, per Ildegarda l’esperienza dell’abbandono, per Bianca il primo seduttore. Hanno conosciuto il mondo e io le incontro nel momento successivo alla ferita che hanno ricevuto. Sono donne che lottano, che non si rassegnano al fatto che il mondo deve necessariamente andare così. In tutte e tre poi c’è la potenza dell’amore, che nel caso di Ildegarda e Bianca passa attraverso l’amore per un figlio.

A tal proposito, come ne “Il tempo è un dio breve”, anche in questo romanzo la maternità ha un ruolo salvifico…

La maternità, ma anche la paternità, hanno un ruolo salvifico perché rappresentano il luogo della cura incarnata dal bambino. Inoltre è il luogo in cui si fa l’esperienza che la vita ci supera, che noi siamo dentro a una vita più grande di noi. La vita messa al mondo ha una sua autonomia e grandezza del tutto indipendente dai genitori. Scoprire che non siamo un assoluto è la strada per non sentirsi Dio, per non devastare il mondo con narcisismi ed egoismi incontrollabili che sono un po’ la cifra di una società che tira dritto per la sua strada mentre intorno a noi domina ogni sorta di miseria.

L’esperienza del dolore è molto forte nei suoi romanzi. Solo attraversandolo, si può avere una forma di conoscenza superiore della realtà?

Il dolore non è mai auspicabile, va sempre combattuto. Non amo la mistica del dolore, è una deriva malata del cristianesimo e non credo che se uno non lo ha sperimentato, non possa conoscere bene la vita. Però quando ci arriva addosso è possibile, anche se non è una regola matematica, che possa dare un’aggiunta di conoscenza alla nostra esistenza.

Bianca fa l’insegnante di discipline pittoriche in un Liceo delle arti e nel romanzo, quando rivela la sua professione, suscita una certa perplessità. La scuola ha perso qualsiasi prestigio sociale? Eppure, riprendendo le parole della protagonista, “a scuola arriva il mondo e si può lavorare e farlo diventare un poco migliore”.

È un po’ un paradosso questo. Della scuola si parla male ovunque e sempre e per partito preso, dal governo in giù. Tanto è vero che, per fare una riforma della scuola hanno dovuto chiamarla la “Buona scuola” quasi in contrapposizione a una scuola cattiva universale che l’ha preceduta. Nonostante questo essa, di fatto, esercita un compito fondamentale di tenuta riguardo ai principali problemi della società come la convivenza, i diritti, il rispetto. Non esiste un luogo della società in cui questi temi sono ancora così importanti.

Vicenza, come ne “La vita accanto”, è ancora il luogo in cui si svolge la storia raccontata. Qui, in modo ancora più marcato rispetto al suo romanzo d’esordio, essa appare una città bellissima ma dominata dal pettegolezzo e dalla logica del denaro che finisce per stravolgere ogni cosa.

Amo molto Vicenza, è una città bellissima. È una città che ha anche una storia letteraria di questo tipo, cioè di essere riconosciuta come una specie di modello in miniatura di tanti luoghi di provincia in cui tutto è molto piccolo e tutti sanno tutto di tutti. Dopo aver passato un po’ di anni in Trentino, quando sono tornata, ho avuto uno sguardo di ritorno su questa città e ho ritrovato tutto questo. Mi ha poi colpito vedere come nel centro storico vi fossero negozi e banche dappertutto. Anche le relazioni sono molto compromesse dal denaro come traspare nel libro. Il denaro è una delle componenti che caratterizzano il seduttore.

Nel romanzo il desiderio appare come una spinta fortissima, ma anche come una forza estremamente pericolosa, che rischia di confonderci e ingannarci.

Il desiderio è la nostra forza principale, bisogna crederci perché ci porta avanti. Certo ci si può ingannare soprattutto quando diventa una forma di compensazione o dove c’è confusione. Nella confusione può prevalere il lato oscuro del desiderio. La forza del desiderio può essere utilizzata per realizzare la bellezza o può essere utilizzata per schiacciare, per dominare, per manipolare come fa il seduttore. Serve quindi un’educazione sentimentale, che non è qualcosa di teorico. È essere esposti ai sentimenti buoni e non a quelli distruttivi: la cura invece che la sopraffazione, la generosità invece che l’egoismo e così via. Non c’è un altro modo. È importantissimo che questa esposizione avvenga in ciascuno di noi, altrimenti si finisce per inseguire qualsiasi desiderio.

Da Il Giornale di Vicenza, 28 gennaio 2016

la letale perfezione della seduzione

 

Un Don Giovanni e un’artista sullo sfondo di una Vicenza modaiola e malevola

di Sergio Frigo

Beffardo scherzo del destino, per Mariapia Veladiano, che accompagna oggi in libreria il suo ultimo romanzo, “Una storia quasi perfetta” (edito da Guanda e non più da Einaudi, € 17), e contemporaneamente accompagna la mamma novantenne nel suo ultimo viaggio. “Se n’è andata per sempre”, dice lei, esattamente come la sua protagonista, Bianca, alle prese con le ferite dell’amore che la mamma, prima di morire, ha cercato di suturare con un testamento di affetto e di parole. Sono inserti che compaiono tra i capitoli a fare argine alla disperazione, un lascito amoroso che dovrà bastare alla figlia per superare un investimento affettivo disastroso.

La catastrofe però deve prima avvenire, e abbattersi su di lei con tutto il suo carico di morte: ha le sembianze di un uomo fascinoso ma senza nome (“non lo merita”, taglia corto la scrittrice, che pure l’ha cesellato con acume e profondità) in un microcosmo in cui i nomi hanno importanza decisiva. Lui ha una piccola ma agguerrita azienda di design per collezioni di moda e oggettistica, ma è soprattutto un seduttore seriale (genere Don Giovanni, non Casanova che si innamorava davvero delle sue conquiste).

Lei è una sensibile, misteriosa ma… candida pittrice, soprattutto di fiori, che si presenta a lui coi suoi lavori bellissimi, la sua eleganza e intelligenza, il suo fisico seducente; lui ne è catturato, vuole i suoi disegni, vuole il suo corpo ma soprattutto la sua anima, come ha sempre fatto con le donne, incurante di lasciarsi dietro una scia di dolore e forse di morte. Per raggiungere il suo scopo mette in campo tutte le sue arti, in particolare la capacità di cesellare parole e concetti, magari rubati alle vittime precedenti. Mariapia Veladiano, che ha al suo attivo due libri in qualche modo austeri come “La vita accanto” (premio Calvino e secondo allo Strega) e “Il tempo è un dio breve”, mostra un’insospettata perizia nel raccontare il brillante ma futile mondo dei creativi (indimenticabile il ritratto della Pr Costanza, fedelissima al capo); si addentra con sicurezza negli oscuri meandri mentali dell’uomo, ma dà il meglio di sé nel definire (senza depotenziarne la carica sensuale) il meccanismo della seduzione, che si dispiega distruttivo e apparentemente invincibile.

Stavolta però non sarà la solita storia: Bianca ha dalla sua gli affetti di famiglia (i genitori scomparsi ma sempre presenti, un figlio e una sorella), la forza della bellezza e dell’arte, e anche un’alleata inaspettata in una Vicenza malevola che ne aspetta solo la caduta.

Ce ne sono tanti di personaggi così, chiediamo, e come si riconoscono?

“È facile trovarli in certi ambienti, ma non sono molti. Si riconoscono perché sono troppo perfetti. Diffidare da chi è troppo perfetto”.

Perché le donne, anche le più intelligenti, cadono nella rete e non riescono a uscirne?

“Questo è un seduttore raffinatissimo, e lei non pensa che si possa essere così falsi. E poi… ci si innamora, e basta”.

Le piante, fin dalla copertina, hanno grande importanza nel romanzo. Anche nella sua vita?

“Certamente, non per niente vengo da una famiglia contadina. La cura per la vita delle piante e quella delle persone ha le stesse caratteristiche, non si può intruppare, ha bisogno della stessa attenzione individuale; lo vedo anche a scuola, dove ci sono ragazzi che necessitano di rimproveri e altri soprattutto di riconoscimenti”.

Da Il Gazzettino, 28 gennaio 2016

il digiuno culturale. Perché quella del tempo è una scusa che non regge

«BEATA TE che hai tempo di leggere, andare a teatro e al cinema». Doppia bugia. Leggere non è questione di tempo. Un moderno romanzo sul tempo perduto (o solo perso?) occuperebbe più dei sette volumi della Recherche. Vagabondari su internet e tv dal far del giorno a notte fonda, in treno, sul bus, a piedi, in macchina. E farfugliamenti immortalati su WhatsApp: Dove sei? alla fermata, sei in ritardo, la vedo arrivare, cosa? la metro, ah, sì, bene, non c’è più campo, uffa, ecco adesso è tornato, cosa? Il campo.

Il report annuale 2015 di We are social racconta che mediamente gli italiani passano quattro ore e 28 minuti su internet, due ore e 30 minuti su piattaforme social, due ore e 39 minuti davanti alla tv. I più teledrogati d’Europa. Dentro a questo oceano di ore un libro all’anno o uno spettacolo teatrale non sono questione di tempo. Ed è una bugia anche la faccenda dell’esser beati. Fosse vero, qualche lettore in più ci sarebbe. Chi pronuncia quella frase mente non sapendo di mentire. Perché confusamente, in fondo, crede abbastanza che la cultura sia una cosa buona e infatti chi non legge non fa campagne contro quello stravagante fenomeno per cui esistono persone che leggono, mentre si può vivere anche senza farlo risparmiando così tempo e soldi.

Cultura e potere hanno viaggiato insieme a lungo e chi non frequenta libri e giornali soffre ancora di un moderato disagio. Poco poco, perché il potere si sta emancipando con fiera baldanza dalla cultura e da Tremonti in poi si sa che «con la cultura non si mangia» e ormai non esser laureati è quasi un requisito per far carriera politica.

E allora se non è questione di tempo, è questione di scelta non leggere, non andare a teatro, al cinema, al museo? Si fa altro semplicemente perché altro ci rende più felici? Fosse vero. Quanta parte della nostra vita è uno scivolare inconsapevole portati dall’aria che tira e da infiniti concorsi di colpa. A parte la scuola, e infatti l’Istat ci dice che sono proprio i bambini e i ragazzi i principali fruitori culturali, non c’è molto del nostro ordinario mondo quotidiano che racconti che la cultura è importante. Librerie intasate da libracci che gli editori pubblicano alla ricerca del botto che salva i bilanci di un semestre invece di coltivare il gusto e la passione di lettori fedeli, biblioteche e teatri che chiudono per i tagli che sulla cultura, pazienza, si possono fare, politici che un libro in mano mai e la cultura è solo la sera della prima alla Scala. C’è una simbolica dei gesti, delle parole, degli spazi e delle azioni che racconta quel che davvero interessa a una società. Le parole sono inganno senza questa materialità che dice il loro valore. L’amore per la cultura non nasce nel deserto della cultura. Ci sono strade istituzionali già percorse e sperimentate. In Francia, Gran Bretagna, Usa, chi vuole scrivere un libro può chiedere una borsa di studio o accedere a una residenza per scrittori, a Praga la metro è tappezzata di pubblicità di libri e gli studenti vanno a teatro e ai concerti con abbonamenti dal costo simbolico. Ogni Paese ha le sue storie. La nostra dice che libri, musei e teatro sono per ora cose di scuola. Non basta, ma graziealcielo c’è la scuola.

Su La Repubblica.it, 13 gennaio 2016.