DEV’essere chiarissimo che valutare non ha niente a che vedere con il potere, mai. L’esercizio del potere gerarchico è intrinsecamente rischioso perché la prevaricazione e il sopruso sono spesso uno scivolare inconsapevole, favorito dai caratteri in gioco, dalla paura e anche, molto, da quella che con una certa approssimazione si può chiamare «l’aria che tira», cioè quel che viene socialmente considerato accettabile.
Oggi la prevaricazione e l’aggressività verbale stanno dappertutto. C’è un sadismo dei rapporti gerarchici che non viene nemmeno dissimulato. Un dirigente che alla prima riunione con i suoi collaboratori dice «Ricordatevi che potete essere licenziati», un funzionario che dice en passant «Guardi che posso fare una relazione negativa su di lei al nostro capo», non esercitano un potere ma un sopruso.
Intervenire su un comportamento scorretto è altra cosa dal minacciare di farlo. La minaccia dell’esercizio del potere è intrinsecamente abuso perché vuol mettere l’altro nella posizione di soggezione, sottintende un’asimmetria della relazione che non esiste perché l’asimmetria è nella responsabilità, mai nella dignità.
Prevaricazione e minaccia sono le parole del bullismo. Ma il bullismo riguarda per definizione i bambini e i ragazzi e viaggia con un corredo di attenuanti che vengono dall’età, dalla condizione sociale, dal diritto dell’età giovane di sbagliare, di coprire l’incertezza del sé con comportamenti sgangherati che chiedono il contenimento dell’adulto. Sono attenuanti che non esistono quando si parla di adulti e meno che mai se sono adulti di scuola.
Un ispettore ha un potere di supporto, si chiama proprio così. Vuol dire che se un preside o un docente sbaglia gli dice dove ha sbagliato e lo aiuta a rimediare. O è così o la valutazione dei presidi e degli insegnanti diventa ricatto e se il tutto capita sui social, diventa anche gogna pubblica, moltiplicatore di conflittualità. L’arroganza è contagiosa. Il contrario di tutto quel che serve alla scuola.
Dalla Lombardia comunque, e proprio dal mondo della scuola, arriva in questi giorni anche la “Settimana della gentilezza”, che da qualche anno il preside Alberto Ardizzone, dell’istituto comprensivo di Merate, propone come giusto inizio dei giorni di scuola, e tanti istituti aderiscono a questa iniziativa che non ha niente a che vedere con il bon ton ma che lancia ragazzi e professori in attività pubbliche, giochi gentili e gesti di amicizia. Che dire di una settimana (una piccola eternità) della gentilezza istituzionale? Fra generi? Intergenerazionale? Addirittura politica?
Un romanzo di romanzi, storie nella storia, digressioni, poesia, descrizioni, dialoghi con altri autori, sacri e no. L’esortazione postsinodale Amoris laetitia è un documento lungo e ha le caratteristiche di tanti documenti ecclesiali che lasciano intuire mani diverse dietro le parole.
La mano che allinea i documenti del magistero, quella più giuridica, quella preoccupata di non dimenticare niente come se ogni documento dovesse riassumere l’universo insegnamento della Chiesa, ma è qualcosa che si capisce, perché davvero tutto si tiene nella fede come nella vita. Poi arriva la voce, la voce di chi il documento lo ha voluto, lo firma, lo ha sognato, immaginato, difeso dai realisti più realisti del re, dai pavidi, da quelli che sul carro salgono sì ma seduti dietro e con i piedi penzoloni (l’immagine la riferiva don Gianfranco Cavallon, acuto e sottile direttore dell’Ufficio catechistico della diocesi di Vicenza un certo numero di anni fa). Da chi il carro lo guida, insomma, spesso da solo. In questa esortazione la voce di Francesco è in ogni pagina, nell’«incontro che guarisce la solitudine» celebrato nel Cantico dei Cantici (n. 13), nella «situazione delle famiglie schiacciate dalla miseria, dove i limiti della vita si vivono in maniera lacerante» (n. 49), nelle «famiglie malate di un’enorme ansietà» (n. 50), nel «creato che ci precede e dev’essere ricevuto come dono» (n. 56).
Abbiamo imparato a riconoscere la voce propria del papa che viene dai confini del mondo e che ascolta il mondo. Ma la sua voce non è (più) sola. C’è un coro buono di voci che arrivano dalle due assemblee sinodali sulla famiglia, le più pirotecniche che la Chiesa ricordi. Nel senso del fuoco che ardeva nel cuore, e allora invece di pirotecniche si potrebbe dire evangeliche, perché anche i discepoli di Emmaus il fuoco lo sentivano. E anche gli apostoli a Pentecoste lo hanno conosciuto. E Mosè nell’Antico Testamento lo vedeva.
In questo senso l’esortazione è un romanzo. Si racconta come le parole della Chiesa vengano dall’ascolto di storie vere che così arrivano con la loro carica di incompiutezza, imperfezione, fragilità e anche ribellione. Il peccato, sì, inteso nella sua radice più comune, il voler essere come Dio, non accettare d’esser regalati, di ricevere in eredità per custodire e poi restituire. La semplificazione è una tentazione. Il voler chiudere la vita in un cerchio dottrinale è una tentazione. «Non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con l’intervento del magistero» (n. 3).
Le parti più belle sono quelle meno riparate o sigillate in una risposta, quelle che non chiudono il cerchio e lasciano la breccia alla critica di chi dice «ma dove andremo a finire?». E invece la domanda è: «Dove siamo andati a finire a voler tutto definire e chi non è dentro è fuori?». Si parte da questo. La vita così è. Tremenda, bella, imperfetta, finita, incompiuta. La vita non chiude i cerchi.
Nella nostra fede e speranza il cerchio chiuso è quello dell’abbraccio di Dio. La sospensione del giudizio è affidamento e insieme accoglienza e salvezza, per noi e per loro, tutti quelli che vorremmo giudicare. Quel che conta è l’amore che tutto comprende. Tutto. Anche la scomposizione della famiglia e lo sfrangiamento dell’amore come oggi lo conosciamo.
Ci sono troppi elenchi di situazioni troppo diverse che accostate fanno sobbalzare e anche un poco arrabbiare. Non si può, in un elenco, mettere una di fila all’altra la prassi della poligamia e quella della convivenza (n. 53). Manca il rispetto della storia. Ma anche qui si capisce la volontà di non lasciar fuori niente dall’annuncio che tutti siamo dentro la Chiesa che ama sul modello dell’amore perfetto di Dio. Quel che conta è l’amore e il giudizio, la norma, la dottrina non sono l’ultima parola.
E poi c’è questa splendida accoglienza del desiderio: «Provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso. Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole. Quello che è bene o male è l’atto che uno compie spinto o accompagnato da una passione. Ma se i sentimenti sono alimentati, ricercati e a causa di essi commettiamo cattive azioni, il male sta nella decisione di alimentarli e negli atti cattivi che ne conseguono. Sulla stessa linea, provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo. Credere che siamo buoni solo perché “proviamo dei sentimenti” è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri» (145).
Non si può rimproverare a un documento della Chiesa di non celebrare il presente così come sta o come si sta trasformando. Quando nel passato lo ha fatto, con il potere soprattutto, ha sbagliato.
Ma c’è qui una strada limpidamente disegnata. Quando Francesco dice rispetto alle situazioni di «fragilità e imperfezione» che «due logiche percorrono la strada della Chiesa: emarginare e integrare» (n. 247) e subito dopo conclude che «si tratta di integrare tutti», perché la misericordia è «immeritata, incondizionata e gratuita», qui la strada è disegnata.
Un viaggiatore e narratore dalla profonda spiritualità, l’inglese Bruce Chatwin, descriveva così il territorio degli sherpa del Nepal, ai piedi del monte Everest: «Ogni pista è contrassegnata da cumuli di sassi e bandiere da preghiere, messi lì a rammentare che la vera casa dell’Uomo non è una casa, ma la Strada, e che la vita stessa è un viaggio da fare a piedi».
Lo stesso Chatwin – che per sé volle un funerale secondo il rito della Chiesaortodossa – ribadiva la sua preferenza per il nomadismo rispetto alla stanzialità ricordando una visita al Museo Egizio del Cairo: «Vedevo file e file di maschere dei faraoni. E mi chiesi: dove sono le maschere di Mosè? Credo sia stato in quel momento che incominciai a provare simpatia per chi non si lascia dietro del ciarpame. E capii che a me interessava l’altra faccia della medaglia». Viaggiare, dunque, è davvero una necessità dello spirito? Come si può conciliare la spinta a recarsi altrove, il desiderio di ammirare il mondo da una prospettiva nuova, con l’antico precetto dalla saggezza monastica per cui l’uomo non dovrebbe fuggire lontano da se stesso, ma cercare la verità nel fondo della propria anima? Sul possibile significato spirituale e religioso dei viaggi e delle vacanze abbiamo interpellato una delle scrittrici contemporanee più sensibili al rapporto tra gli affetti umani, la bellezza degli ambienti naturali e la dimensione della fede, Mariapia Veladiano, autrice di «La vita accanto», «Il tempo è un dio breve», «Ma come tu resisti, vita» (pubblicati da Einaudi) e di «Una storia quasi perfetta» (Guanda).
«Qui si parla di un viaggiare che è assoluto privilegio – sottolinea Mariapia Veladiano –, non del viaggiare inevitabile della migrazione per necessità o della fuga dalla guerra o dalla persecuzione: questo viaggiare è la traccia visibile e tremenda dell’ingiustizia, di una terra e un’umanità che non hanno saputo costruire il giardino della convivenza. Il viaggiare libero è storicamente legato al benessere e alla cultura. Viene dalla curiosità, dalla ricerca di un sé consapevole di abitare un mondo più grande di quello in cui si è cresciuti. Viaggiare è trovare una distanza da cui leggere la nostra realtà, è riconoscere la diversità come respiro normale della vita, è vivere bellezze diverse, sorpresi da qualcosa che nemmeno potevamo immaginare. Certo che la verità su noi stessi può essere trovata in molti modi, ma la strada è sempre quella di accettare il movimento, un movimento metaforico o reale, ma sempre un viaggio è questo essere veri perché coincide con l’esser vivi, capaci di accogliere il movimento della vita. La vita non è mai immobile».
Ci sembra che nei suoi libri e nei suoi articoli ricorrano spesso descrizioni e allusioni a quelli che parrebbero essere i «luoghi dello spirito» da lei prediletti, dalle montagne dell’Alto Adige alle città universitarie tedesche. Sperando di non essere troppo intrusivi: qual è, in assoluto, il luogo a lei più caro?
«Quello a Parigi è stato un viaggio che ha segnato un prima e un dopo nella mia vita. Andarea Parigi a vent’anni partendo da una provincia piuttosto prudente (quella di Vicenza, ndr.), da un liceo buono e serenamente appagato del suo riprodursi sempre uguale nei decenni è stato un terremoto. Parigi è il centro del mondo. Ho incontrato la bellezza assoluta dei musei, delle sere sulla Senna, dei libri ovunque, modernità accostata al passato con una audacia accolta come normalità del costruire il mondo. E poi lo schianto con la povertà visibile ovunque. Ricchezza e povertà. Bellezza e miseria. E vita vita vita. Ho imparato a tenere insieme tutto della vita. A non avere paura. Ad avere una percezione fortissima del privilegio di essere nata nella parte fortunata del mondo e ad essere grata, ad avere sempre presente che questo è privilegio e che bisogna riparare l’ingiustizia. Tutto questo è venuto da un viaggio. Poi sono andata a Parigi ancora decine di volte, anche solo per un giorno, a ritrovare questo sentimento e a ringraziare. La basilica del Sacré-Coeur, a Montmartre, è per me una meta di pellegrinaggio. Anche letterario. Là passeggiavano Jacques Maritain e Léon Bloy. Nel tempo si è aggiunta la montagna, soprattutto la montagna d’inverno, come luogo del cuore. In alta montagna scrivo e cerco i piedi del trono di Dio».
Oltre che una letteratura, non vi è anche una «mitologia» – in senso deteriore – dei viaggi? Capita che si vada a Roma o ad Agra non per visitare San Pietro o per contemplare il Taj Mahal, ma per farsi fotografare avendo questi edifici sullo sfondo. Forse pensando a comportamenti del genere, Sartre faceva dire al protagonista de «La nausea» che di viaggi e di avventure proprio non ne esisterebbero: da un luogo geografico a un altro, noi porteremmo solo la nostra insoddisfazione («E poi tutto si assomiglia – conclude Antoine Roquentin –: Shanghai, Mosca, Algeri, in capo a una quindicina d’anni è tutto uguale»).
«C’è un viaggiare con i sensi, un sentire suoni nuovi, vedere colori nuovi, ascoltare parole dalla musica nuova e diversa, i movimenti delle persone. Questo viaggiare ci cambia sempre. Poi certo c’è un viaggiare distratto. Il trascinare la propria insoddisfazione può capitare oggi che il viaggiare è facile, non è la conquista di mesi di risparmi, di sogni, di un fare e disfare programmi e itinerari che diventa già un conoscere prima di partire. Può esserci un consumismo del viaggio, come c’è per la cultura, per i forzati dei musei e delle mostre di moda; o come c’è per l’amore, che è “eterno” per qualche mese ed è sempre da esibire e raccontare sui social. È il rischio di una modernità veloce che frulla un po’ tutto. Ma viaggiare rimane sempre una buona
idea».
Nell’ipotesi che a viaggiare veramente si riesca, che tutto non si riduca a stordimento o ai souvenir da acquistare al volo per poterli poi mostrare agli amici: quale sarebbe l’atteggiamento caratteristico di un vero pellegrino, di un «viaggiatore spirituale»?
«La capacità di seguire il proprio viaggio immaginato, sognato, con tutta la libertà possibile. Possibile perché sarebbe artificioso anche lo sforzo di lasciare qui i pensieri. Come si fa a lasciare i pensieri? Si parte con tutto quel che siamo. Ma seguendo un desiderio. Vedere le nevi eterne (parlo per me, vorrei tanto andare in Tibet), entrare in una cultura che affascina: conosco persone che sono andate in Islanda o in Nuova Zelanda sulla strada di questo sogno. Il viaggio spirituale è semplicemente il viaggio che ci trasforma e ci fa riconoscere quel che siamo e che talvolta dimentichiamo di essere perché la nostra vita è un vortice troppo esigente».
Si può riuscire a viaggiare «ogni giorno», anche dopo che si è fatto ritorno a casa? A trovare la novità dello spirito non solo sulle Dolomiti o ad Assisi, ma pure nelle aree più grigie e disanimate delle nostre città, nei «nonluoghi» di cui parla l’etnologo Marc Augé?
«È una conquista. Parte da un atto di volontà e richiede una disciplina. Lo spazio della preghiera o della meditazione o semplicemente del passeggiare come appuntamento con noi stessi, un vedere il mondo che ci circonda. Poi può diventare habitus, può trovare una propria naturalezza questo piccolo vero vivere illuminazioni quotidiane che possono essere il senso di un evento, una piccola gioia trovata nella bufera dei giorni. Ma non viene da solo. Oggi è davvero una conquista».
“Una storia quasi perfetta” nasce da un primo nucleo molto lontano. È la storia di un vecchio professore di discipline plastiche, vecchio e “malamente malato”, invecchiato male, con una sostanza di degenerazione dello spirito che gli avvelena il corpo insieme alla malattia fisica e all’età, che non necessariamente è malattia in sé, in lui sì.
Ma lui è famoso, il suo nome è importante e di questo il professore approfitta per circondarsi di allieve giovani e piene di vita. Sa leggere il loro desiderio di essere riconosciute, come donne e come artiste, e le seduce, sadicamente e senza grazia. Ne prende l’energia e la giovinezza.
Questa storia ha occupato il pensiero e la scrittura per molto tempo. Presa, lasciata, ampliata. Ma non riuscivo a farle avere un movimento. Era come un quadro, ma non diventava storia. Mancavano i personaggi intorno, il luogo giusto. L’Accademia di Venezia, certo, lo studio del professore, ma non succedeva abbastanza, intorno a loro non si muoveva il mondo. E del resto quel che cercavo era un duetto, una storia a due che esplorasse quel che capita quando si cade nella trappola del perverso.
Un passo molto difficile da compiere, quando si scrive, è rinunciare a qualcosa su cui si è così tanto lavorato da sentirlo già creatura, e come si fa a rinunciare alla propria creatura per quanto non ci piaccia? È misto di orgoglio – non posso aver lavorato così male – e paura – allora questa storia proprio non nasce, è “brutta”. E c’è anche la paura di non riuscire a farsi venire un’altra buona idea. Il blocco.
Di solito fa bene lasciar lì e lavorare ad altre scritture. È una piccola liberazione con tarlo annesso, perché il pensiero dello scartafaccio abbandonato resta lì, ombra sullo sfondo del pensiero.
E di solito allora, a sorpresa, fra un articolo e un altro, o a colazione, o sfogliando un giornale, capita che da solo il personaggio si anima. Va verso una direzione. In “Una storia quasi perfetta” Bianca si è spostata da Venezia, è cresciuta, ha trovato un lavoro, ha recuperato la sua casa di famiglia e soprattutto è rinata insieme al piccolo Gabriele, figlio che dà la vita alla propria madre. Qualcosa di divino e insieme esperienza umanissima di ogni genitore.
La sua nuova vita è costruita e insieme difesa attraverso un preciso progetto di riparazione attraverso la bellezza. Bianca non lo fa consapevolmente, ma nella casa piena di fiori, nelle tavole assolutamente perfette che disegna, nella passione per il suo lavoro di insegnante mette la volontà di riparare il male vissuto attraverso la bellezza. E qui, in questo punto della sua vita, Bianca incontra un uomo, un amore che come ogni amore rimette in gioco tutto. Si può amare di nuovo, fidarsi? “Io non posso essere lasciata cadere” dice Bianca a quest’uomo. Non dice “Non voglio cadere o non posso cadere”. Dice che non può essere lasciata cadere, che deve fidarsi perché fidarsi, amare, vivere è necessario, ma che lui non deve lasciarla cadere. Non tradire di nuovo la fiducia.
L’evoluzione della vita di Bianca ha portato con sé la scelta di passare dalla prima alla terza persona. I due precedenti romanzi sono scritti i prima persona. Anche il primo nucleo di questo, la storia di Bianca e del professore, era in prima persona. Ma l’incontro fra Bianca e il nuovo amore ha imposto la terza persona perché questo mi permetteva incursioni continue nel pensiero di lui. Il narratore onnisciente è una tentazione perché permette di giocare con i tempi della storia e con l’interiorità delle persone. Qui la scelta è stata di limitare l’onniscienza. Si alternano sì le prospettive di lettura dei sentimenti ma a parte una minuscola anticipazione che sta all’inizio della storia e che ho messo e tolto almeno dieci volte e alla fine ho lasciato, a parte questa anticipazione la narrazione segue il tempo della storia.
Ecco. Poi il tema della bellezza si accompagnava spontaneamente al tema dei fiori, della natura, che c’è in tutti i miei romanzi. E anche al tema della musica, dei suoni, dei suoni delle parole.
Così è nato il romanzo. Il nucleo iniziale è diventato un paragrafo in un capitolo. La storia vera doveva ancora nascere quando pensavo di averla trovata.