maestri incapaci di insegnare

E l’Italia scopre di avere un esercito di maestri incapaci di insegnare
Bologna. Cinquemila respinti agli scritti per elementari e materne. Ma la colpa non è solo loro

La notizia è che in Emilia Romagna solo il 24% dei candidati al concorso per entrare di ruolo nella scuola primaria e il 16,5% dei candidati alla scuola d’infanzia ha superato le prove scritte. Il rigoroso meccanismo dei concorsi che ha letteralmente strizzato le possibilità organizzative dell’amministrazione scolastica (banditi in tempi strettissimi, in corso d’anno scolastico, le commissioni nominate e rinominate vorticosamente, senza esonero dalle lezioni e pagate un nulla) non porterà a coprire i posti disponibili. La stragrande maggioranza delle cattedre non andrà a ruolo.

Il Direttore dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari dice che per la scuola d’infanzia il problema è stato il livello culturale basso, mentre per la scuola primaria mancava la preparazione didattica.

Si trattava di candidati laureati, la maggior parte di loro già in cattedra da anni. La prova scritta prevede 6 domande, tutte legate a situazioni concrete che richiedono da un lato la conoscenza della normativa e dall’altro la capacità di giocarla creativamente in situazioni concrete di scuola. Il presidente coordinatore delle commissioni alla scuola d’infanzia Emilio Porcaro parla di gravi incompetenze ortografiche, sintattiche e didattiche. Mancava l’abc del buon docente, insomma.

Se il livello è questo, giocare la carta del discredito sulle commissioni esaminatrici non ha senso. Qualsiasi candidato che non sappia scrivere in italiano corretto non può fare il docente e va fermato. E anche se non ha idea di come trasferire nella classe le sue conoscenze. In questo senso il concorso, previsto dalla Costituzione come modalità di reclutamento, fa esattamente il suo dovere. Solo che arriva alla fine di una serie di errori e inadempienze e allora appare ingiusto e scandaloso.
La vicenda del concorso in Emilia Romagna racconta un pezzo della nostra storia. La scuola come lavoro-rifugio. Chiunque pensa di poter insegnare e invece non è vero. Ma lo si pensa perché negli ultimi trent’anni, in mancanza di un sistema regolare di reclutamento, tanti hanno potuto insegnare di fatto, senza concorsi e selezione, per accumulo di punteggio di servizio e titoli i studio, anno dopo anno, con meccanismi di salvaguardia per cui alla fine in qualche modo nella scuola si entra e soprattutto si resta. Inamovibili. Provi un preside a fare una contestazione a un docente, di ruolo o no. Un calvario.
Racconta anche la storia di una mortificazione sistematica delle competenze linguistiche che è comodo ma sbagliato imputare alla scuola. Non è la scuola di massa il problema. È l’ignoranza di massa accettata ed esibita. Si impara la lingua per esposizione, esposizione alla buona lingua, e se la società non legge, non sa parlare e pensare e di questo non si preoccupa e per questo non sente vergogna, se anche la politica esibisce la sciatteria del linguaggio e del pensiero, non c’è scuola che possa trovare un rimedio.

Racconta anche la storia di un Paese confuso, che da un lato vuole giustamente mandare in cattedra chi sa insegnare bene e dall’altro continua ad offrire pochissimo agli insegnanti davvero bravi: scuole con pochi mezzi, stipendi che dicono “il tuo lavoro non vale niente”. I candidati bocciati continueranno ad insegnare da precari, perché i posti ci sono e le cattedre vanno coperte. Il concorso ci rivela un bel po’ di mali della nostra società più che della nostra scuola.

Da La Repubblica, 11 giugno 2017

©laRepubblica

quel salto tra paura e fiducia nel futuro

Il liceo è per sua natura una scuola che investe nel futuro. Il titolo di studio non è immediatamente “professionalizzante”, come si dice. Dopo bisogna pensare all’università. Per cui il dato del Miur che registra la crescita di iscrizioni nei licei può restituirci uno sguardo di fiducia nel mondo che verrà, ed è una buona cosa.

Potrebbe, però, raccontare anche una paura. La paura di un mondo in cui nessun lavoro oggi immaginabile è ragionevolmente abbastanza sicuro e allora conviene scommettere (impegnare le proprie energie giovani) in una preparazione larga e flessibile, un liceo che lasci aperte tante possibilità, dopo. Anche questa è una buona cosa, se è vera.

Chi lavora nella scuola però sa che il liceo è un poco anche un marchio. Una firma. Le scuole registrano un pellegrinaggio dallo scientifico tradizionale, o anche dal classico, verso lo scientifico delle scienze applicate, che è il liceo “senza il latino”, come si dice in modo un po’ grossolano. E allora l’aumento dei licei light (soprattutto delle scienze applicate e sportivo, +0,4% insieme) potrebbe essere uno degli indicatori di quella deriva dell’apparire che affligge il nostro tempo. Mio figlio deve fare un liceo purchessia. E questa non sarebbe una buona cosa.

Sempre restando bene aderenti ai dati del Miur e cercando di interpretarli, un poco preoccupa il fatto che i licei siano scelti dalle regioni in cui di più batte la crisi del lavoro mentre Veneto, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia sono le regioni in cui i ragazzi ancora scelgono gli istituti tecnici. In queste regioni i tecnici offrono ancora una buona possibilità di impiego dopo il diploma, e sceglierli vuol dire tenere aperte entrambe le strade dopo la maturità: l’università e la professione.

Il calo dei professionali invece è un vero disastro. È il risultato di una scelta politica dissennata fatta quando si è deciso di snaturarli, togliendo quel rassicurante step intermedio che era la qualifica professionale dopo il terzo anno, rassicurante per chi temeva di non poter fare un tecnico di cinque anni e insieme trampolino per chi scopriva che invece ogni passaggio di scuola è una nuova possibilità e che si può essere migliori di come ci si immaginava.

Chi ci ha lavorato sa che gli istituti professionali sono stati il laboratorio di tante buonissime pratiche poi diventate riforme. E ascensore sociale e ammortizzatore sociale e molto altro.

Il liceo non può essere né un bene rifugio né uno status symbol. Deve essere la buona scelta di chi il greco, il latino, la matematica, le scienze li sceglie per passione.

Da La Repubblica, 8 febbraio 2017

madre che asseconda la vita

La madre che muore ci porta con sé per tutta intera quella parte di lei che ci accompagnava ogni istante presente, o sullo sfondo, pensiero o soprassalto di emozione lontana. Nel racconto di Ferdinando Camon questo è un compito che, senza intenzione, come portato, si assume il padre, mentre i figli e i nipoti e i campi, le vigne, la terra fanno da coro. Coro di sguardi e di silenzi, lui è il solista.

Un altare per la madre è esattamente come una musica che si ama. La si ascolta e riascolta e ci rassicura con i passaggi che conosciamo così bene da aspettarli con impazienza, quasi mandati a memoria. E insieme ci sorprende con un’immagine nuova, scappata alle altre letture oppure resa nuova dal nostro essere ogni giorno nuovi, riscritti dalla vita, a volte sottolineati, come quando la nostra madre se ne va senza il giusto avviso.

«La bara avanzava ondeggiando». È così. Portate a braccia le bare ondeggiano, appena un poco sopra le teste, chi se n’è andato ancora rimane un poco con noi, fra noi e il cielo, incerto di poter partire. Forse con i nostri riti gli diamo il permesso. O lo tratteniamo in modo scomposto, e così ondeggia sul nostro dolore incerto.

Qui è morta la madre: «Ora la madre era morta, ma questo non era possibile».

L’amore per la madre non conosce la pena di un lento venire meno come capita ad altri amori che ci lasciano la tristezza di non aver potuto fissare splendido e immobile il nostro sentimento. L’amore per la madre è per sempre. Sia quando lo abbiamo assecondato sia quando siamo scappati e lo abbiamo troncato rabbiosi, e la rabbia lo ha reso più accanito e presente.

La madre che muore ci porta con sé per tutta intera quella parte di lei che ci accompagnava ogni istante presente, o sullo sfondo, pensiero o soprassalto di emozione lontana. Lei c’era e il mondo era in ordine.

«Di questo mio essere vivente faceva parte anche mia madre, doveva farne parte per sempre, io vorrei pregarla di smettere di morire, ma forse nella sua morte c’è stato un errore, mio, nostro – di noi tutti che le vogliamo bene – e tocca a noi rimediare, richiamarla in vita, non rassegnarci».

Nel racconto di Ferdinando Camon1 questo è un compito che, senza intenzione, come portato, si assume il padre, mentre i figli e i nipoti e i campi, le vigne, la terra fanno da coro. Coro di sguardi e di silenzi, lui è il solista.

La scrittura qui è perfetta. Il tema, la sequenza di suoni che permette alla musica, alla vita, di non implodere, finita nell’immobile ripetere gesti, si mostra da lontano: «Sono tornato dai miei ma non ho trovato in casa nessuno, la casa era spalancata e deserta. Sono andato a cercarli sui campi e mi son seduto sotto un vigneto. Li vedevo muoversi tutti insieme, lontani, all’orizzonte, e non capivo che lavoro facessero. Certi lavori qui sono fatti ancora all’antica, i movimenti che una volta mi sembravano naturali adesso non li capisco più. Mi sembrano scaduti. Ci dev’essere qualche estraneo in mezzo ai miei, perché vedo una figura che sta sempre in piedi, non si curva mai, dunque non lavora».

È lo straniero a portare una storia di lei che nessuno in famiglia conosce. Durante la guerra, mentre scappava da chi lo inseguiva in auto cantando con i fucili che sparavano fuori dai finestrini, la «signora», così lo straniero chiama la loro madre, si è alzata di scatto dalla «muretta» dove stava seduta: «Drento, drento, curi curi», ha gridato. «Dentro, dentro, corri corri».

Salvato da lei, nascosto dietro una parete che non c’è più, ma lui conosce il punto esatto in cui tutto è capitato e il padre vuole sapere, perché il padre «vuole sempre sapere tutto» e perché questo punto è il varco, la storia che riprende a essere storia e non terra di cimitero pronta a gelare nell’inverno di pianura.

Bisogna ricostruire il muro della salvezza, ricostruire questo pezzo di vita, miracolo di vita salvata che moltiplica le vite salvate come i pani e i pesci del Vangelo.

Il resto è una liturgia senza regole, un forsennato lavoro di mani, ginocchia, sangue. Il padre ricompone pietra su pietra la costruzione dove la salvezza è avvenuta. Trova le fondamenta, è a un incrocio di strade. Sta con lei mentre lavora. Vede quel che lei vedeva, sente le campane da dove lei le sentiva, mentre lui era in guerra. L’idea dell’altare è naturale come quel che è venuto prima. Quel luogo può diventare casa per uno degli altari davanti ai quali si ferma la processione annuale delle campagne.

È la processione che fa conoscere i malati da visitare. Non ci sono altari da quelle parti ed è importante averne uno per i malati. Mancano solo due settimane alla processione. Manca il materiale con cui costruire l’altare. Mancano anche le forze ma bisogna. Non la vince la corsa contro il tempo il padre, come è giusto. L’altare è pronto due ore dopo il passaggio della processione e della benedizione. Ma il tempo lo fanno gli uomini infine. Sono loro a permettere che sia legge oppure vita. L’altare per la madre è vita e il prete la riconosce.

«Quando gli altri uccidono, bisogna salvare il più possibile. Quando gli altri muoiono bisogna inventare una forma di immortalità».

Non è un trattenere la madre. È il progressivo faticoso acquisire che la madre è eterna nel bene fatto, segreto dentro i gesti necessari e diventato improvvisamente folgorante nel punto luminoso in cui lei ha salvato l’uomo, vincendo la morte grazie a questo spontaneo assecondare la vita, che è arte divina consegnata agli uomini.

Mariapia Veladiano

da Il Regno – attualità, 15 ottobre 2016

chi ha paura del mondo cattivo

CHI HA paura del mondo cattivo? Il pomeriggio del secondo giorno di scuola il genitore di un bambino di prima elementare telefona al preside e gli dice: «Oggi sul pulmino un compagno di mio figlio lo ha spinto. Per questa volta le telefono, la prossima volta le mando gli avvocati». Alla fine di un Consiglio di istituto dedicato ad approvare il piano di sicurezza della scuola il preside ringrazia e saluta una rappresentante dei genitori la cui figlia di quinta superiore sta partendo per un viaggio di istruzione a Berlino: «Ormai sua figlia e i suoi compagni sono maggiorenni e un po’ di responsabilità le condividiamo con loro», dice. «Eh no!», risponde la signora. «Se capita qualcosa la colpa è vostra».

Scuola a responsabilità illimitata. La preside di Bergamo che chiede ai genitori di venire a prendere i figli adolescenti alla fine delle lezioni solleva un problema verissimo. Dove arriva la culpa in vigilando della scuola? All’aula, ai bagni, sul pulmino, fino a casa, fino a diciotto anni e fino a Berlino. Ci sono sentenze che dicono di sì. Per la legge la scuola deve provvedere alla sorveglianza dei minorenni “fino al subentro reale o potenziale dei genitori”.

Qui c’è un conflitto gigantesco con l’obiettivo primo dell’educazione che è la crescita dell’autonomia personale dei ragazzi ma è talmente cambiata la percezione della sicurezza rispetto a un passato vicino che si vive (ansiosamente) la scissione: i figli tornano di notte a tutte le ore ma li si consegna alla scuola come a una teca iperprotettiva.

Il livello di rischio del mondo esterno è oggettivamente aumentato. Abbiamo accettato città e paesi costruiti per il traffico e il commercio e né bambini né adulti hanno vita facile. Tutti abbiamo paura e i genitori chiedono alla scuola quella sicurezza che sentono impossibile. Ma è un’illusione crudelissima quella che affida la sicurezza al controllo, che si tratti di insegnanti, poliziotti o telecamere.

La vita è altamente intollerabile se non la si vive in una condivisione di fiducia reciproca e di responsabilità. Esiste una responsabilità in educando, che è anche e soprattutto dei genitori, esiste la fiducia di cui tutti, i figli soprattutto ma anche la scuola, hanno bisogno. E insieme esiste il rischio che rimane dopo aver eliminato quello che dipende dalle nostre scelte sociali, amministrative, culturali. Però la vita è altamente intollerabile anche se non la si prende almeno un poco all’ingrosso. Cioè così come sta, con il suo essere tremenda e bellissima, spesso le due cose insieme, a volte in sequenza troppo ravvicinata.

Forse la preoccupazione ci fa sentire genitori migliori. La paura riempie bene la vita, copre i sensi di colpa per il tempo non dedicato, per lo sguardo mancato, per lo sgomento di non saper capire o di non poter proprio capire e la paura è più rassicurante dell’impotenza. Ma la paura non è una fatalità da accettare come la grandine che quando cade cade. È anche il risultato di un mondo al quale abbiamo permesso di essere più pericoloso del necessario.

Chiunque sia stato in visita alle scuole olandesi (e danesi e tedesche) ha visto la mattina arrivare sciami di studenti in bicicletta, colorati nei loro impermeabili, li ha visti riporre scarpe e stivali negli armadietti, fare lezione e ripartire alla fine della giornata di scuola. Possono essere rapiti durante il tragitto. Sì, ma si muovono insieme, il rischio è minore. Possono fare un incidente. Sì, ma il gruppo rende più sicuri e viaggiano sulle ciclabili. Possono ammalarsi per la pioggia. Sì, ma molto molto meno dei nostri figli che passano dal letto all’aula dentro un suv preriscaldato. E poi in questo andare nell’aria del mattino forse sperimentano qualcosa del loro poter essere liberi.

Su La Repubblica.it, 13 gennaio 2016.