vivere, anche se non ci si capisce niente

Si rilegge lo splendido cocktail creato da Bruce Chatwin già malato e però come sempre scatenato di storie (Che ci faccio qui?, Adelphi, Milano 1990) come presi in un capogiro da eccesso di mondo. Intanto perché ce lo ricordiamo come un groviglio di emozioni più che di fatti.

Impossibile ricordare tutte le storie, di sicuro però sì la paura e il senso di irrealtà di Assunta, donna delle pulizie nell’ospedale inglese in cui Chatwin è ricoverato, che parla dell’enorme pitone o boa constrictor che la sua vicina tiene in casa, ma scappa continuamente, e ha anche fatto riprodurre con la fecondazione artificiale così che la follia umana ha follemente raddoppiato il pericolo.

Oppure il senso d’impotenza dentro l’assurdo colpo di stato in Benin in cui Chatwin è incarcerato e scambiato per un mercenario e la sua penna stilografica per una pistola, è picchiato da un caporale che immaginiamo governativo, salvato da un colonnello che immaginiamo prima governativo poi rivoluzionario e che è il vincitore per qualche ora o almeno lo pensa lui, il colonnello, ma forse no, poi viene di nuovo incarcerato dal caporale perché intanto i governativi hanno forse rivinto ma poi arriva un nuovo colonnello questa volta donna e così di minuto in minuto non si sa chi fa il gioco di chi e l’unica cosa è stare calmi perché, come dice il  primo colonnello prima di darsi alla fuga, «in questo paese non si capisce niente» (37).

C’è tutta la bellezza scomposta della vita vista dagli occhi trasparenti di lui che ci guarda dalla copertina con gli scarponi appesi al collo, e che ricordiamo in mille foto che il mito della sua figura ci ha consegnato. Impossibile rileggere se non dentro a questo «dopo» che ci accompagna mescolato alle emozioni della prima lettura.

Ma qual è il fascino di questo libro?

Allora. Prendiamo Madame Madeleine Vionnet. Chi non si occupa di moda, di storia della moda e non è una donna alta almeno un metro e ottanta (madame Vionnet non sopportava le donne basse, lei era piccola) e cioè quasi tutti noi, non ne sa niente. Ecco.

Dopo aver letto il racconto di Chatwin che incontra questa signora di allora 89 anni a Parigi, esattamente 34 anni dopo che la sua casa di mode ha chiuso i battenti, abbiamo l’esatta impressione di sapere qualcosa di più della vita e semplicemente siamo più contenti, un poco riconciliati. Lei non ha militato a trecentosessanta gradi.

Le sue clienti erano ricche, fosse stato per lei avrebbero dovuto esse anche tutte alte e belle, si capisce che era ruvida e che non aveva problemi di autostima: «Io sono la migliore sarta del mondo, e so di poterlo dire!» (110). Però ha liberato le donne dalla tirannia del busto e ha «insistito perché le donne rimanessero donne mentre altri couturiers facevano somigliare le loro clienti a ragazzi o a macchine» (111). Drappeggiava la stoffa sui corpi «come un grande scultore che intuisce le possibilità latenti in un blocco di marmo» (ivi). Riconosceva la vita.

Un racconto è un puro omaggio di un narratore di viaggi verso un altro narratore di viaggi. Si parla di Robert Byron che nel primi decenni del Novecento viaggia fino alla Cina e al Tibet. Chatwin lo sente fratello in quell’arte di capire attraverso gli occhi del viaggiatore che si muove fra i secoli e la storia.

Scrive Byron: «L’esistenza di Santa Sofia è atmosferica; quella di San Pietro, concreta in modo incombente, soverchiante. L’una è una chiesa per Dio; l’altra un salotto per i suoi rappresentanti. L’una è consacrata alla realtà, l’altra all’illusione. Perché Santa Sofia è grande, San Pietro è spregevolmente, tragicamente piccolo» (351). Tranchant e quindi provocatorio.

Si può leggere da offesi oppure si può chiedersi se uno sguardo laico militante di un «arcinemico di ogni compromesso con Hitler» (355) non ci dica davvero qualcosa che può somigliare a un avvertimento: la Chiesa che tutto vuole abbracciare e comprendere è Chiesa solo se tutto consegna al cielo che ci si regala e ci aspetta. Cristiani non trattenete ma affidate.

Poi Byron raccontato da Chatwin è andato in Afghanistan e leggere del loro salire sulla testa del Buddha di Bamiyan, oggi polverizzato dalla furia talebana, ci consegna in un attimo la nostra limpidamente ottusa capacità di distruzione e di morte e ci si chiede chi ci salverà da noi stessi e dalla nostra libertà.

Poi si legge il piccolissimo racconto L’albatro (411), che incrocia Samuel Taylor Coleridge e La ballata del vecchio marinaio, Charles Darwin e gli indios fuegini, un viaggio all’isola di Steepholm nel Canale di Bristol in cerca di una peonia portata come erba medicinale da alcuni monaci provenienti dal Mediterraneo, un indio dell’isola di Navarino incontrato per caso e del quale Chatwin conosce lo zio non si sa come, e la bellezza appena immaginata di un misterioso albatro femmina di colore nero arrivato dal Cile a Hermaness nell’arcipelago delle Shetland, a nidificare fra le candide sule. Un giro del mondo in cento righe. Cosa c’è di più vivo?

Si torna allora all’impressione lasciata dalla storia del colpo di stato in Benin e anche se non si può ricordare l’ordine dei fatti e anche se non si capisce niente di chi fa cosa e malgrado l’assurdità del tutto che fa disperare dell’umanità, si finisce di leggere e vien voglia di vivere e ancora vivere.

Da Il Regno, 15 maggio 2017

il chierico provvisorio

Virgilio Scapin è stato scrittore, libraio, gran maestro e priore della Venerabile confraternita del bacalà alla vicentina, fine e impertinente osservatore della sua città e della campagna che la circondava e che raccontava nei suoi libri con ironia divertita, senza malevolenza o giudizio. Alla storia bastava la sua messa in scena. Il chierico provvisorio (Longanesi, Milano 1983) racconta la sua vocazione mancata. Siamo a Vicenza, il fascismo guida con decisione la rovina dell’Italia, la piccola borghesia operosa che ci ha creduto troppo, ma senza entusiasmi particolari, si attorciglia per sfangarla fra cambiali e topi che rosicchiano la roba.

È un romanzo che ci restituisce un mondo. Dopo un incidente in cui si è maciullato i piedi e distrutto la spina dorsale mentre era fuochista alle Tramvie vicentine, il padre del protagonista è liquidato «con una manciata di castagne» (14) e faticosamente diventa proprietario di un magazzino di generi alimentari: «Nel mezzo del primo stanzone (il magazzino ne aveva due contigui) campeggiava con le zampe poggiate su quattro mastelli di crauti, un enorme coccodrillo di cartapesta, il dorso trafitto da una lancia. Qui era appeso un cartello: “prodotti coloniali”» (13).

È il 1935 e il coccodrillo fa il suo ingresso quando i soldati italiani sbarcano in Eritrea e Somalia e «a dar credito alle autorità, c’era solo da allargare le botteghe e da arruffianarsi gli importatori» (13). Poi arrivano le sanzioni internazionali, di prodotti nemmeno l’ombra e il coccodrillo finisce preso a calci dal padre furioso.

Il piccolo Beato Serafini, si chiama proprio così, va alla scuola privata del patronato, dai padri Giuseppini. Costa e quindi è frequentata dai figli dei ricchi e proprio perciò il padre lo iscrive lì, perché «dai ricchi c’è sempre qualcosa da imparare» (22). Solo che a frequentare i ricchi può capitare che si finisca col vergognarsi delle dita sporche di unto con cui il padre firma i bei voti e dell’odore che resta attaccato ai quaderni. La ribellione necessaria dell’adolescenza si manifesta attraverso il violento rifiuto degli odori legati al lavoro del padre: baccalà bagnato, salamoia, formaggio, orina di gatto, aringa, sudore. Beato non riesce a stargli vicino, vomita, lo credono ammalato e così si rifugia nella chiesa del patronato, dove fra profumo di cera, lino, incenso lascia passare il tempo finché dalla finestra entra il colore della sera.

Così lo nota padre Silvio dalla pelle chiara e dalle mani magre «ma piene di dolcezza, fatte per toccare l’ostia consacrata» (57). Nello spazio di un breve colloquio fra padre Silvio e suo padre, durante il quale la madre scappa e la nonna gli promette di comprargli la tonaca, il piccolo Beato si convince «davvero di essere votato a Dio» (65).

Per qualche anno la vita di collegio, nelle campagne vicentine, è solo sfiorata dalla guerra. Per Beato la guerra arriva prima attraverso le visite del padre: «Povero papà! Era diventato magro, la giacca gli cadeva sulle spalle e i suoi occhi avidi e curiosi s’erano fatti spiritati… Lavorava come una bestia per tirare avanti e io avrei dovuto aiutarlo» (75). Poi attraverso la fuga precipitosa dal collegio, di notte, quando il pericolo non arriva ormai più dai tedeschi in fuga che ignorano quel gruppo di ragazzotti in tonaca, ma da un gruppo di partigiani che invece qualche tentazione anticlericale ce l’avrebbero.

Finita la guerra la formazione riprende. La vita di collegio piena di disciplina e di fame, fra superiori pieni di umanità oppure solo accomodati in un mestiere. Si parla di una certa avidità dei padri che tenevano nascosto ogni ben di dio mentre i novizi si ammalavano d’inedia, oppure di due compagni di vocazione sorpresi, loro stessi sorpresi, da emozioni cui non sanno dare il nome e allontanati in gran segreto. Non c’è giudizio su nessuno. Così è il cuore dell’uomo.

Irresistibile (da insegnante leggevo ad alta voce a scuola queste pagine quando arrivavo al 1948 in storia) è il racconto di come i novizi hanno vissuto le prime elezioni dell’Italia repubblicana. La sera prima delle elezioni i novizi sono convocati dal padre direttore: «Domani figlioli sarà un giorno difficile per la nostra madre patria. Si svolgeranno le elezioni politiche e noi dovremo pregare intensamente perché gli anticristi non vincano e scatenino la rivoluzione. Estote parati. Pregate nel vostro cuore perché se necessario, Dio vi infonda la fortezza dei martiri e salvi la Chiesa» (232).

Il giovane Beato Serafini la mattina del 18 aprile si lava, si cambia e mette abiti nuovi adatti al martirio, scrive due testamenti, uno materiale e uno spirituale e aspetta, lo sguardo rivolto al cancello che dà sulla campagna perché certamente da là gli ugonotti sarebbero arrivati a infilzare i chierici.

Sappiamo com’è andata. Beato Serafini non muore martire ma con un movimento lento di progressivo sbiadirsi del fervore, perde la vocazione e torna a casa, a piedi, con la sua valigia pesante. Lungo la strada si ferma in un’osteria di campagna e mangia pane intinto nel vino bianco. Una piccola ebbrezza. La vita è una e tutto si tiene. La campagna intorno è diventata come un mare verde. Beato immagina di poterla «percorrere in lungo e in largo, disteso sull’erba, all’ombra dei gelsi» (319).

Da Il Regno, 15 giugno 2017

lettera a D.

Tornare a innamorarsi della stessa persona che abbiamo avuto vicino per anni, dopo che i giorni fra loro uguali, l’ovvia naturalezza delle azioni ripetute, le distrazioni di una vita piena l’avevano resa invisibile senza che ce ne accorgessimo.

Presente in ogni momento, non solo nella quotidianità delle cose trovate pronte, i cibi, i vestiti, pulita la casa e accuditi gli amici, ma anche nella complicità delle scelte difficili, vicina nelle svolte e negli errori. Ma invisibile nel senso che non si è riconosciuta l’importanza di questa presenza.

Lettera a D. Storia di un amore (André Gorz, Sellerio, Palermo 2009) è uno strano libro perché per tre quarti delle sue 78 pagine fa arrabbiare. Parla l’autore in prima persona e anche se scrive alla moglie Dorine parla quasi sempre di se stesso. È un personaggio, del resto.

André Gorz è filosofo, giornalista, saggista, fondatore del Nouvel observateur, direttore di Les temps modernes, la rivista di Sartre. Pensatore della sinistra libertaria, ideologo del maggio francese. Poi teorico di un pensiero anti individualista ed ecologista e fortemente anticapitalista. E prima e per sempre, è ebreo austriaco, nato a Vienna nel 1923, con quel che ciò comporta.

Una vita piena che ha avuto accanto una donna eccezionale, intellettuale a sua volta, un rapporto alla pari come era difficile per l’epoca. Raro e bello. Addirittura complice nell’impegno e nella radicalità delle scelte culturali. Eppure si capisce che dietro c’è il vecchio stereotipo della grande donna invisibile della quale tutto, anche l’intelligenza, è a servizio del grande uomo.

Al punto che lui l’ha di fatto «negata», nei suoi scritti: «Perché sei così poco presente in quello che ho scritto mentre la nostra unione è stata ciò che vi è di più importante nella mia vita?» (19). Peggio: l’ha denigrata, ha rovesciato la realtà: «Perché ti ho presentato come una creatura pietosa che non conosceva nessuno, non parlava una parola di francese, che si sarebbe distrutta senza di me, mentre tu avevi la tua cerchia di amici, facevi parte di una compagnia di teatro a Losanna ed eri attesa in Inghilterra da un uomo deciso a sposarti?» (20).

Si capisce che anche questa lettera è pesantemente a rischio d’essere il panegirico di lui che finalmente capisce tutto e quindi si aggiunge un tassello eticamente virtuoso alla sua superiorità e per questo dà sui nervi qua e là.

La parte centrale è un elenco di fatti minuziosi in cui lui rilegge i suoi successi rimettendo al suo posto Dorine. È un elenco necessario all’autore per far riaffiorare la vita reale rispetto alla vita scritta e pubblicata.

È molto bello il passaggio in cui Gorz ricorda di avere avuto grande difficoltà a completare la parte relativa all’amore in un saggio filosofico sulla gerarchia ontologica dei rapporti individuali (!). «Ho avuto molte difficoltà con l’amore perché è impossibile spiegare filosoficamente perché si ama e si vuole essere amati da quella precisa persona con l’esclusione di tutte le altre. All’epoca non ho cercato la risposta a questa domanda nell’esperienza che stavo vivendo» (37).

L’amore pensato e l’amore vissuto. È il corpo di lei la risposta, e lui sembra trovarla esattamente nelle pagine di questo piccolo libro: si tratta delle «esperienze fondatrici che affondano le loro radici nell’infanzia… una voce, un odore, un colore della pelle, un modo di muoversi e d’essere… siamo al di là e al di qua della filosofia» (38).

Poi Gorz torna a parlare di sé e ancora di sé e ancora e ancora. E torna il fastidio. Salvo poi avere un soprassalto quando va a ricostruire come sia potuto accadere che abbia scritto e pubblicato la loro storia descrivendola come non era: lei passiva e incapace, lui che non la lascia non per amore ma per non permetterle di distruggersi.

Parlava di lei con un tono di scusa. «Come di una debolezza» (63). Tutto falso, perché? Perché, si risponde, l’ideologia prevaleva sul riconoscimento della realtà. I rapporti personali, compreso l’amore, appartenevano al contesto dei rapporti alienati. Tutto doveva essere sociale, tutto doveva essere politico. La vergogna di ritenere importante un rapporto d’amore.

E oggi? La vergogna di ritenere importante un rapporto che dura nel tempo, lungo e capace di tornare vivo. Di sicuro non c’è il distrattore politico o ideologico oggi. C’è la banalità della grande distrazione, la vita è sempre altrove, un poco più avanti. E le relazioni che ci accompagnano scivolano invisibili accanto a noi.

Gorz ha ritrovato Dorine quando un giorno lo sguardo si è fermato sul suo corpo: «Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quarantadue chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile» (19).

Tornare a innamorarsi non come atto riparatore, dopo la morte della compagna, ma prima, un certo giorno, da vecchio, in tempo per dirglielo. Senza pretendere nulla. Non il perdono per i silenzi, i tradimenti e le assenze. Verrebbe da dire: nemmeno il libro andava scritto, perché si sente che qua e là lui cerca lo sguardo assolutore del mondo.

Il fatto di aver vissuto lasciandola ai margini dello sguardo e anche dei pensieri è ormai irrimediabile. Ma l’amore è una storia, non solo un sentimento. E i fatti e i corpi rimangono e ci salvano nel luogo giusto: «Mi avevi dato la possibilità di evadere da me stesso e di istallarmi in un altrove di cui eri la messaggera» (33).

Moriranno suicidi, insieme, un anno dopo la pubblicazione del libro. E qui si tace.

Da Il Regno, 15 luglio 2017

i 700mila aspiranti precari nell’Italia che non riesce ad abolire la “supplentite”

La scuola è un sogno, vien da dire. In questi giorni il Sidi, il Sistema informativo del ministero dell’Istruzione, è andato in crash sotto la pressione di quasi 700.000 richieste di accesso da parte di aspiranti docenti che devono completare entro il 25 luglio la domanda di aggiornamento del punteggio, oppure la domanda di nuovo inserimento, nelle graduatorie di seconda e terza fascia delle scuole.

Si tratta delle graduatorie cui le scuole attingono per le supplenze, che possono essere lunghe nel caso non frequente che i posti vacanti non siano stati coperti dalle nomine degli Uffici scolastici, oppure brevi, cioè i giorni della malattia di un titolare, per lo più. I quasi 700.000 sono in parte già presenti in graduatoria e in parte nuove immissioni, neolaureati che chiedono di insegnare.
La notizia c’è, nasce dal fatto che agli accessi dei candidati si aggiungono quelli delle segreterie delle scuole che non hanno ancora finito (i tempi erano strettissimi e il sistema funzionava così così) di fare la loro parte nella procedura, e cioè validare al Sidi le domande cartacee che dovevano essere presentate entro il 24 giugno scorso. Si sarebbe potuto prevedere questo assalto al Sidi?

Certo, ma il tutto, al netto del tempo sprecato davanti al computer e delle arrabbiature, non è così grave perché quando le domande sono acquisite, per poterle perfezionare — cioè scegliere sedi di possibile ipotetica supplenza — basta una proroga e la cosa si aggiusta. Tanto più che la “corsa” ha lo scopo opportuno di non dover nominare a inizio anno scolastico docenti provvisori “fino all’avente diritto”. Ma la vera notizia è che ci sono quasi 700.000 persone in Italia che vogliono fare l’insegnante. E che l’attuale sistema di reclutamento glielo permette, o permette di sognarlo, anche se non ci sarà per molti di loro nessuna possibilità di farlo. Oppure sì, perché in effetti è già capitato che si siano assunti docenti di cui non c’era bisogno, soprannumerari dal giorno della firma del contratto.

In forza di una sentenza della Ue che ha applicato allo Stato italiano quello che tutti gli Stati della Ue, anche il nostro, applicano alle aziende, e cioè il divieto di utilizzo sistematico del precariato, a partire dal 2015 sono stati immessi in ruolo i precari storici della scuola, quelli delle Gae, le Graduatorie ad esaurimento, che invece di esaurirsi si erano cronicizzate per la mancanza di concorsi, per modalità confuse di reclutamento, per lo stratificarsi di ricorsi.

Nelle Gae c’erano docenti plurispecializzati bravissimi e docenti che non entravano in classe da anni, appartenenti a classi di concorso in esubero, che alla scuola non pensavano più. Si è trattato della più massiccia assunzione senza selezione del dopoguerra. La politica disse «mai più», da oggi assunzioni regolari, concorsi regolari, modalità limpide. Programmazione dei bisogni. Non è così. Di fronte ai quasi 700.000, con una popolazione scolastica da 5 anni in costante calo, meno 34.426 studenti nel 2015 secondo l’annuario statistico dell’Istat 2016, non è evidente la capacità politica di programmare l’accesso alla professione docente, sulla base della scienza demografica, come più o meno fanno tutti gli altri Stati, con sistemi centralizzati (i concorsi) o aperti (su base territoriale e con criteri differenziati).

E ci si chiede anche se davvero tutti vogliano fare l’insegnante. Il Miur fa sapere ufficialmente che erano previste 300.000 domande, come nei precedenti aggiornamenti delle graduatorie. Ne sono arrivate più del doppio. Si tratta di una professione socialmente poco stimata, come dimostra il fatto che è sottopagata (gli stipendi più bassi d’Europa) e altamente femminilizzata e le professioni “lasciate” alle donne sono quelle meno considerate (ce lo insegna la sociologia). Oppure proprio queste procedure aperte, che di fatto preparano un’altra situazione di precariato, che sappiamo già essere illegittimo, e quindi richiederà sanatorie, sicure perché sono sempre arrivate, inducono a pensare che davvero prima o poi nella scuola si entra e che c’è posto per tutti?

Così non va bene. È un problema che richiede la gestione di una realtà complessa, senza mai cedere alla tentazione di lasciar correre le cose perché la disoccupazione è alta e intanto finché si sogna non ci si dispera.

Il buon governo è anche quello che mostra ai cittadini la differenza fra sogno e illusione.

Da La Repubblica, 19 luglio 2017