sillabare sentimenti

Il cielo è un deserto e niente fa pensare che prima o poi qualcuno lo possa attraversare. Un uomo e una donna s’incontrano in una terra appena un poco più abitata. Gli altri esistono, certo, ma a loro volta occupano un piccolo ritaglio di cosmo, in coppia o in minuscolo gruppo. Spesso c’è un bambino ma il suo esistere non scalfisce veramente il recintato mondo dei grandi.

Sillabari di Goffredo Parise (Adelphi, Milano 2004) raccoglie 54 brevi scritture di prosa poetica dedicate ai sentimenti. Sono in ordine alfabetico e l’ultima parola è «Solitudine». Niente Tenerezza, Timore, Uggia, Vergogna, Verecondia, Vita, Zanzara, Zolla, Zero. Alla lettera «S», scrive Parise, ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore (cf. 12).

E «Amore» è il primo perfetto frammento che apre la raccolta. C’è un uomo che conosce una donna. Niente di che: capelli rossastri, volto dalle ossa robuste e zigomi sporgenti da contadina slava, mani tozze e unghie molto corte. Non ne è colpito. La raffica di caratteri ordinari non promette niente. La rivede al ristorante qualche tempo dopo, si sta sedendo, la grossa mano scosta i capelli colore delle carote sporche di terra (cf. 16). È sempre lei, niente estetista o chirurgo, ma la somma dei suoi caratteri fisici dà una «natura» diversa del suo essere donna: per una fulminea coincidenza di ragioni tanto misteriose quanto casuali, era bellissima (cf.16).

L’uomo la guarda e sente aumentare comicamente le pulsazioni del suo cuore perché capisce di avere capito tutto di lei. E lo stesso lei, che si gira e capisce di aver capito tutto di lui e anche lui capisce che lei ha capito.

Questo è l’amore? Sì e no. Perché il piccolo deserto in cui si muove il loro sentimento è abitato anche da un marito con le caviglie senili, da figli, da sospettose convenzioni che stanno potenti sullo sfondo e così la donna fa un passo avanti, lo invita a cena, e uno indietro, racconta al marito di una loro telefonata un poco più esplicita, fino a che, a una cena fra amici, un suo «mi lasci in pace» (19) chiude malamente la storia. E lei stava seduta a capotavola, forte e severa; il marito sorrideva ed era buono e servizievole (20).

La storia finisce ma il sentimento che lui e la giovane signora avevano provato (e qui descritto) era tale che essi, senza volerlo e senza saperlo, avevano vissuto e disperso nell’aria in così poco tempo alcuni anni della loro vita (cf. 20). Ecco, questo, anche, è l’amore.

La scrittura di questi sentimenti è tutta visiva e insieme oggettivamente filosofica, se si può dire, di una filosofia che registra la vita, la legge e la sottolinea, non cerca niente oltre quel che accade ma lascia esistere con una precisione scientifica esattamente quel che accade. Niente le sfugge e la materialità delle cose e delle azioni è (quasi) tutto. Il particolare che non
lascia scampo.

Nel racconto «Odio» la donna anziana vestita di visone bianco e scuro ha la faccia cotta da lunghe esposizioni di sole, marrone, unta e luccicante, a forma di escremento di mucca, come a cerchi concentrici (cf. 273), l’ordine che dà a un cameriere esce da una larghissima bocca pendula, senza labbra e tuttavia carica di rossetto (cf. 273), la mancia al cameriere la estrae da una borsa di coccodrillo biancastro, con una mano scura tutta membrana e unghie colorate (cf. 274).

La possiamo vedere la mano. L’abbiamo vista tante volte al ristorante, per strada, negli alberghi, insieme alla pelliccia, all’abbronzatura, al rossetto. E l’odio è già tutto in questa immagine che inchioda la vita artefatta, ricca, volgare e sprezzante di chi compra invece di chiedere o tessere relazioni.

Il tempo e il suo scorrere inflessibile è protagonista malinconico di gran parte delle storie e la malinconia è il sentimento di quasi tutti i sentimenti esplorati dal libro. Ma poi si incontra il racconto «Bellezza» e si trova un vecchio che ogni giorno esce di casa con la falce e un carrettino, la pipa, il tabacco, un astuccio di bambù per i fiammiferi e il corno di bue con la pietra per affilare la falce. Ha pochi indumenti, è analfabeta, ha una famiglia, che gli dà dispiaceri e soddisfazioni.

Quest’uomo costruisce gli attrezzi che gli servono e fa così. Durante l’estate adocchiava certi rami d’albero e li segnava, quando cadevano le foglie li osservava meglio e sceglieva, all’inverno li tagliava e li metteva ad asciugare al sole per un anno, poi li scorticava lentamente col coltello: per fare questo lavoro impiegava anche un giorno per ciascun ramo. Preparava i suoi progetti di lavoro invernale due o tre anni prima, partendo dal ramo o dal tipo di legno (salice, acacia, gelso, olmo, raramente pioppi) poi risaliva agli oggetti necessari (scale, rastrelli, manici per forche, un cancello) e cominciava il lavoro dentro la stalla (cf. 71).

Il progetto di un piccolo attrezzo perfetto si distende lungo due, tre anni. La natura si offre, la bellezza finale raccoglie le estati e gli inverni. La vecchiaia non fissa con malinconia il passato, semplicemente continua a vivere.

È un libro fatto di frammenti di vite raccolte con tutti i loro spigoli taglienti, con prudenza riportati in parole e carta. Ma i frammenti possono essere perfetti quanto può esserlo la vita.

Da Il Regno15 settembre 2017

scuola, l’obbligo fino a 18 anni non è la priorità

Più scuola per quasi tutti e meno scuola per qualcuno? Oppure più scuola ma per tutti? Le notizie estive sulla scuola chiedono una bussola o ci si perde. Accanto al liceo breve che porta al diploma un anno prima adesso la ministra Valeria Fedeli fa una dichiarazione di intenti a favore dell’innalzamento dell’obbligo scolastico da 16 a 18 anni.

In realtà il “diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o comunque sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età” esiste dalla legge 53/2003, ribadito in successivi decreti e poi di fatto sfumato dalla Buona scuola ma non dal Jobs Act che prevede che gli studenti delle scuole statali dai 15 ai 25 anni di età possano accedere a contratti di apprendistato per 36-48 mesi ai fini del conseguimento del diploma. Si tratta dell’avvio di un sistema duale simile a quello tedesco che però in Germania parte da un impianto dell’istruzione completamente diverso e molto legato alle differenze esistenti fra i Länder. Questo significa che qualsiasi nuova idea sulla scuola deve tenere conto dell’esistente e soprattutto di un esistente costituito da novità non ancora a regime e non ancora verificate nella loro efficacia.

Se il diritto dovere all’istruzione e alla formazione non si è ancora realizzato dal 2003 ci sono delle ragioni che vanno esplorate prima di introdurre altri obblighi.

E poi ci sono le priorità. In questo momento la priorità è la dispersione, ancora troppo alta (tra il 15 e il 20% a seconda delle indagini) rispetto ai Paesi dell’Unione europea (11%). Se non riusciamo a tenere i ragazzi a scuola fino a 16 anni non sembra che innalzare l’obbligo a 18 renda la cosa più facile. Altra priorità è l’analfabetismo funzionale, e cioè il fatto che gli italiani giovani e adulti nella bella misura del 28% non sono in grado di comprendere testi d’uso e di tipo argomentativo. L’Italia è penultima in Europa e quartultima al mondo in questa competenza, il che vuol dire che ragazzi e adulti si formano convinzioni politiche e anche pseudoscientifiche (i dibattiti “scientifici” sui social sono spesso surreali) attraverso slogan o appartenenze. Una manna per i demagoghi di tutte le appartenenze, una tragedia per la democrazia. Poi c’è la priorità di una scuola pubblica che non è più fattore di promozione sociale ed economica come è stata fino a un tempo abbastanza recente e anche questa è una tragedia.

E infine c’è la priorità data da un’integrazione culturale assolutamente necessaria, che diventa non solo esercizio di giustizia verso chi arriva da noi pieno di bisogni ma anche di diritti, ma anche un’assicurazione sul futuro della nostra convivenza. Bisogna tenere insieme i ragazzi, italiani e stranieri, a scuola e dare loro una lingua. Questo è (quasi) tutto. Non è poco ma l’obbligo e diritto all’istruzione si misura non in quantità ma, si potrebbe dire, in intensità e qualità dell’esperienza vissuta. In questi anni la scuola non ha avuto un giorno di pace in cui riflettere su se stessa e sull’efficacia delle riforme che si accavallano, e la cui armonizzazione con la normativa esistente è poi lasciata alla mitizzata autonomia scolastica. L’azione educativa può agire nella povertà dei mezzi (e lo abbiamo imparato a fare egregiamente) ma non nella confusione e nell’emergenza continue.

Più istruzione è ovvio che è sempre una cosa buona. Ma se allungare più o meno la frequenza sia una cosa buona è una domanda senza senso. Dipende dalla qualità, dalla bellezza, dalla capacità di offrire esperienze significative che permettano di essere a scuola in modo personale, vigoroso, attivo. E di imparare.

Da La Repubblica, 24 agosto 2017

occhi color del mare

Rileggere Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway (Mondadori, Milano 1975) da grandi, molto grandi, è una sorpresa. Si apre il libro sapendo sostanzialmente tutto. I personaggi sono due, il vecchio pescatore Santiago che non riesce a portare a riva un pesce da 84 giorni e il giovane suo ex apprendista Manolin, tre con il pescespada, quattro con il mare, se si vuole.

Il resto è un contorno di umanità normale, circoscritta nello spazio, il villaggio di pescatori, e nei pensieri comuni. Ci sono i giovani leggeri e inconsapevoli che canzonano Santiago per la sfortuna che gli si è incollata addosso, i più vecchi consapevoli che invece lo guardano e «si sentono tristi» (5), i ragionevoli genitori del ragazzo che lo costringono a lavorare per un pescatore più fortunato, Martin il padrone del locale la Terrazza che continua a mandargli la cena anche se il vecchio Santiago non può pagare, i pescatori che raccontano «con garbo» (5) della corrente e della profondità a cui avevano calato le lenze.

Si comincia a leggere in qualche modo avvolti da un preciso residuo mnestico (scolastico?) di lettura simbolica: il mare metafora della vita, la lunga pesca solitaria metafora della lotta per la sopravvivenza, o della eterna ricerca del senso, l’immenso pescespada conquistato e poi però perduto metafora della fortuna (felicità?) che si lascia afferrare ma non possedere eccetera eccetera.

E invece. Invece in qualche modo arriva una lettura completamente diversa. Gli occhi «allegri» di Santiago, dello «stesso colore del mare» (4) sono un’immagine talmente potente che ci accompagna lungo tutto il racconto, per cui anche il lungo buio reale (le notti) e metaforico (la solitudine, lo sfinimento, l’incertezza) non è mai davvero buio, perché si sa che questi occhi azzurri in ogni momento una luce ce l’hanno e la notte non è davvero nera.

Le cicatrici delle mani, «ma nessuna di queste era fresca. Erano tutte erosioni di un deserto senza pesci» (4), ci fanno sentire i tagli, le lacerazioni della sua lotta contro il pescespada come benedizioni, la vita senza ferita non è vita benedetta perché non conosce il suo limite e la ferita non è il male da evitare ma il normale respiro di giorni vissuti. Non c’è niente da imparare, solo da accogliere.

Il ragazzo Manolin, «che gli voleva bene», accompagna il vecchio Santiago esattamente con la sua assenza e l’amicizia è insieme presenza e assenza dentro la vita del vecchio Santiago, assimilata come assimila in mare la carne dei pesci crudi che mastica con metodo perché gli diano la forza della lotta. L’assenza non è tradimento, nemmeno tradimento della fiducia di chi ha voluto il giovane Manolin lontano da lui, perché ogni relazione, l’amicizia come l’amore, vive più di assenza che di presenza. Vivere attaccati come patelle non è amicizia, è simbiosi parassitaria o mutualistica, in ogni caso non c’è libertà.

Qui questa amicizia è piena di precise perfezioni. Manolin non fa pesare a Santiago le attenzioni che gli rivolge e gli offre birra e cibo come per caso, en passant. Asseconda le sue pudiche bugie e declina con cortesia l’invito di Santiago a mangiare riso giallo e pesci che in realtà il vecchio pescatore non ha sul fuoco, perché è povero, estremamente povero. Lo forza ad avere cura di sé.

La perfezione sta nei dettagli di una spontanea, semplice, cristallina umanità che Santiago accoglie ringraziando: «Era troppo semplice per chiedersi quando avesse raggiunto l’umiltà» (8).

È tutto nelle prime pagine, il resto scivola come la barca sul mare, come una poesia di parole perfette e gesti assoluti perché sono perfettamente normali. Quel che tiene il tutto è che tutto capita senza che venga mai in mente un possibile giudizio.

La vita si accompagna alla morte in ogni istante del racconto e non esiste bene e male nella vita accettata come viene e però insieme affrontata, soli come Santiago, o in compagnia del ragazzo, che certo sarebbe meglio, ma se non c’è con le sue mani giovani c’è nella forza di una relazione che rimane. Niente magia, Santiago può soccombere ogni momento, ma stavolta non soccombe anche se non vince perché il meraviglioso immenso pescespada viene spolpato dai pescecani e non gli darà il nutrimento sperato. Per un mese intero avrebbe mangiato Santiago, ma non sarà così.

Il pescespada è «fratello» (91), «più nobile e capace» (59) degli uomini, e in quel punto di smisurata intensità in cui la vita li fa incontrare niente più li può separare: «Pesce, resterò con te fino alla morte. Anche lui resterà con me, pensò il vecchio, e aspettò che sorgesse la luce» (48). E a Santiago, che lo ha arpionato e lo sta uccidendo lentamente, spiace che il pesce non abbia nulla da mangiare (71), come lui del resto.

C’è una poesia delle parole, dei pensieri, dei gesti, delle ferite, dei suoni, anche il suono tremendo della cartilagine che si apre tra le vertebre e il cervello dei pescecani che Santiago uccide per salvare la sua pesca. C’è una dimensione di totale assenza di peccato in un evento, la pesca di un grande bello sensibile pesce, che la sensibilità moderna (e anche quella personale di chi scrive) sente violento in modo insopportabile: «Forse è stato un peccato uccidere il pesce… Ma allora tutto è un peccato. Non pensare ai peccati… Tu sei nato per fare il pescatore e il pesce è nato per fare il pesce. San Pedro era un pescatore, e anche il padre del grande Di Maggio» (102).

Uccidere non è un diritto di posizione, è necessità e natura. O lo era.

Comunque è una sorprendente innocenza, per nulla irenica e paradisiaca, ma innocenza infine pacificante, il regalo di questa narrazione perfetta, riletta attraverso gli occhi «allegri» di Santiago.

Da Il Regno, 15 marzo 2017

Dio ci scampi dall’umanità presuntuosa

Dio ci scampi dagli uomini di Jane Austen. Prendiamo Orgoglio e pregiudizio (Feltrinelli 2016) e partiamo pure da quello che alla fine forse sembra il migliore, Mr Darcy. Solo una morbosa inconsapevole disposizione masochistica incisa nel DNA femminile può celebrarlo come il bel tenebroso, il cuore d’oro imprigionato nella scorza dura di un’educazione (educazione?) aristocraticamente superiore.

Mr Darcy è un gran maleducato. Non solo giudica tutti con il metro della sua intransigenza, ma anche governa la vita dell’amico Mr Bingley che allontana dall’amata Jane perché ritiene (e appunto sbaglia giudizio) che lei non sia sufficientemente innamorata. È arrogante, ostenta il disprezzo verso chi ritiene inferiore, e quando smette di ostentarlo non lo fa perché ha acquisito finalmente un po’ di comprensione verso la varietà dell’umana famiglia, ma perché l’amore per Elizabeth Bennet lo stordisce come una clavata sulla testa ed è costretto a vedere un poco con gli occhi di lei.

Quanto a Mr Bingley, è un bietolone. S’innamora tanto tanto di Jane Bennet, o forse no perché poi la pianta nella sua malinconica campagna al primo cenno di Mr Darcy, ma forse anche sì perché quando Mr Darcy gli dice vai, lei ti ama, allora sembra innamorato davvero davvero.

Ma si può? Per farci male possiamo parlare di Mr Collins, il cugino ecclesiastico che erediterà la casa delle cinque sorelle Bennet senza merito alcuno se non quello di essere nato maschio. È irrimediabilmente stupido, petulante, striscia davanti a ogni tipo di potere, di fede nemmeno si può parlare, intriso com’è di stolto, viscido moralismo.

Al suo confronto Mr Wickham è un faro. È un autentico farabutto, bugiardissimo e profittatore, limpidamente opportunista. Il male travestito di buone maniere, capace di dispensare complimenti similautentici, con l’inclinazione naturale a piacere e a ingannare.

Di sicuro non uno di questi uomini fa qualcosa di buono. Cavalcano e ballano e vanno a passeggio alcuni, altri cacciano e chiacchierano vacuamente. Praticamente tutti fanno danni, al patrimonio o ai sentimenti altrui.

Mr Bennet, il padre delle sorelle Bennett, in effetti ci tira a un po’ di simpatia. Passa il tempo fra i libri, adora Elizabeth che è la figlia più intelligente, riconosce la stupidità in buona parte del resto della sua famiglia. Ma in realtà non si contano le sue colpe per omissione. Non fa niente per arginare l’irresponsabile dilagare della moglie, maleducata, invadente «il cui unico passatempo era costituito dalle visite e dai pettegolezzi» (59). Non fa niente per educare le figlie minori, e lascia che la vita della piccola Lydia sia artigliata dal pessimo Mr Wickham.

E così siamo passati alle donne. Il cielo ci salvi anche dalle donne. Sua signoria Lady Catherine zia di Mr Darcy è orrenda nella sua illimitata propensione a comandare ogni aspetto della via altrui, dal matrimonio del nipote al governo delle vacche e dei polli da parte di Mrs Collins.

Miss Bingley sorella di Mr Bingley è falsa e manipolatrice. Mrs Bennet è un dilagare di impresentabile grossolanità. Lydia è scema in modo invincibile. Jane Bennet, la sorella maggiore, è piena di virtù, emana benevolenza e non un bruscolo di malanimo offusca il suo carattere ma se non fosse stato per Elizabeth avrebbe trascorso l’intera sua esistenza in lutto per un amore che non aveva avuto l’ardire di far trapelare nemmeno con un rossore prudente, di quelli che calano regolarmente sulle guance di tutte le altre fanciulle del romanzo.

Fosse oggi la si manderebbe a un corso di autostima e motivazione. Rimane Elizabeth che certo la narratrice onnisciente del romanzo ama molto e il punto di vista interno è quasi sempre il suo. È acuta, e se prendiamo per vero che «nessuna donna può dirsi realmente colta se non sorpassa di varie lunghezze la misura comune» (90), è certo colta, nel senso che legge libri e anche le interessa davvero il mondo che la circonda e cerca di capirlo. Ma di Mr Wickham non capisce niente e si lascia raggirare tanto quanto e nemmeno del suo bel Mr Darcy.

In effetti suona molto sincera la sua espressione quando accetta l’invito della zia a viaggiare con lei in estate: «Che piacere! Che felicità! Addio delusioni e malinconie. Che cosa sono gli uomini di fronte alle rocce, alle montagne? (..) E quando faremo ritorno, non saremo come gli altri viaggiatori che non sono in grado di dare un’esatta idea di quello che hanno visto. Noi sapremo dove siamo state; descriveremo i luoghi visitati» (194).

Poi però accetta senza tante cerimonie il cambiamento fulmineo di Mr Darcy e si sposa come le altre, probabilmente più felice delle altre, perché forse lei ha «scelto» di fare quello che era necessario per i tempi e la convenienza, o forse perché l’intelligenza le consente l’ironia, che salva sia dal malumore sia dalla malinconia.

Romanzo incantevole. Moderna con misura, questa Miss Austen che parla la lingua schietta di Elizabeth e forse in lei mette un qualche desiderio e ci fa divertire ogni volta della ridicolissima serietà con cui ogni epoca pretende di essere lei sola assolutamente vera e giusta. E ci lascia il piacere di una ricetta piccola e chissà universale: un po’ di pene d’amore sparse qua e là e poi, eccola, la felicità.

Da Il Regno15 aprile 2017