La Grazia della vita

Questa è una «RiLettura» tendenzialmente perenne, nel senso che si ha il desiderio di rileggere il libro appena dopo averlo chiuso e poi ancora una volta e dopo qualche tempo ancora, per riascoltare i pensieri del reverendo John Ames che forse sta morendo, in effetti ha un’età importante e il cuore non funziona come dovrebbe, ma ha trovato in un amore bizzarro, inatteso, libero oltre ogni rigidissima convenzione – e intorno a lui le convenzioni sono tutte rigidissimamente accomodate dentro la pancia morbida e formale della fede congregazionista della cittadina di Gilead – ha trovato il regalo di un amore inatteso, non cercato, semplicemente accolto come si accoglie la Grazia quando arriva.

E la Grazia arriva sia che ci si creda sia che non ci si creda. Lui ci crede naturalmente, ci crede per gli altri, e anche per Dio, ma non si aspetta che arrivi davvero per lui, John Ames, e ci mette un poco a capire che alla fine è tutto molto semplice, si tratta di dire di sì alla vita, perché «si può vivere bene in tanti modi» (3).

Gilead di Marilynne Robinson (Einaudi, Milano 22017) è un capolavoro assoluto di scrittura e di umanità. È stato pubblicato nel 2004, in Italia nel 2008. È il primo volume di una trilogia splendida (Lila, 2015; Casa, 2011, entrambi di Einaudi), ma lo si può leggere da solo perché si sa che ogni capolavoro si basta.

Il romanzo ha la forma di una lunghissima lettera al figlio di sette anni, arrivato come un regalo, così come è arrivata la madre, la giovane Lila, rispetto al pastore giovane, arrivata da non si sa dove, che lui ha sposato senza quasi conoscerla e senza sapere ancora di essere innamorato, l’ha sposata perché lei glielo ha chiesto e lui ha detto sì, per fede nella vita, per non commettere il peccato più grande che un uomo possa commettere, che è certo uno e tremendo, cioè sottrarsi alla Grazia che ci raggiunge in forma impensata, anche nella forma discreta di una donna che vorrebbe ripartire e non può farlo perché la vita la trattiene lì, perché lei ha la grazia di portare vita in quel piccolo orto concluso che è la storia di un vecchio pastore vedovo, senza figli e che non conosce ancora del tutto i propri desideri.

Il pastore John Ames è figlio del pastore John Ames, misurato pacifista, ed è nipote del pastore John Ames, mistico guerriero di Dio con cui trattava direttamente, parlandogli quando serviva, combattente unionista compagno di John Brown. Lui, John Ames terzo, è un uomo riflessivo, prudente, onesto, sicuramente un buon pastore per la circoscritta città di Gilead, che non esiste naturalmente, ma che dopo i tre libri della Robinson è vera tanto quanto Roma, Chicago, New York, con le strade e le persone chiamate per nome e per famiglie e soprattutto con una storia.

A Gilead esiste un atro John Ames, ma è John Ames Boughton, figlio del pastore Boughton, amico fraterno di John Ames che con lui discute di grandi questioni di fede. È andato via da casa come il figlio della parabola, ha combinato cose che si conoscono e cose che si ha paura di conoscere e perciò non si osa chiedere.

Tutto il racconto è anche sotto il segno di questo figlio che interroga sulla bontà della vita, che torna e rallegra e insieme inquieta il vecchio padre e anche il pastore John Ames perché vede che lui è giovane quel che è giusto per Lila ed è anche pieno di energie e gioca con suo figlio e parla con Lila e si intende. Ha paura il pastore John Ames? È geloso? Forse, i suoi pensieri sono anche un percorso di consapevole distacco dai sentimenti inutili.

Quando tanta Grazia è arrivata, come si può perder tempo sugli screzi del mondo? Eppure tutto è importante. Anche la parola casuale lasciata cadere nel silenzio di uno stare insieme difficile, diventa assoluto in quel momento.

Il bambino cresce sereno accanto a Lila che gioca con lui e lo porta spesso al cimitero dove si prendono cura della prima moglie di lui. Non c’è tristezza in questo, Lila ha l’arte della continuità. La vita è una, si può essere ancora di qua a camminare sull’erba e foglie e lavorare l’orto, oppure si può essere di là, sì, sotto la terra per poter appoggiare il ricordo, ma sempre di terra si parla, i fiori ci crescono e in qualche modo la fede ci dice che è proprio lei la continuità che Dio ha voluto se ci ha formati dalla polvere: «E non riesco a credere che, quando saremo tutti trasformati e avremo abbracciato l’incorruttibilità, dimenticheremo la nostra splendida condizione mortale e transitoria, il grande fulgido sogno di procreare e perire che fu importantissimo per noi» (59).

Non è triste il pastore e nella scrittura un poco tutto si alleggerisce: «Immagino sempre che la divina misericordia ci restituisca a noi stessi permettendoci di ridere di quello che siamo diventati, di ridere degli assurdi travestimenti – posture chine, occhiatacce, zoppie e cipigli – che tutti indossiamo» (122).

Il bambino figlio di John Ames, nipote di John Ames, bisnipote di John Ames gioca in giardino con Lila.

Un bambino è nato e fa nuove le cose: «Presto mi vestirò di immortalità» (55).

Da Il Regno15 luglio 2018.

la maturità nella terra di mezzo

L’esame di Stato 2018, l’ultimo con la forma che conosciamo, cade in un tempo in cui le parole del potere polverizzano i valori che la Costituzione affida alla scuola pubblica

Forse l’esame di stato 2018 abita una confusa terra di mezzo. Di certo è l’ultimo con la forma che conosciamo: prima prova di italiano uguale per tutti, seconda prova ministeriale unica per indirizzo, terza prova su misura della classe, con domande a scelta multipla oppure a risposta aperta, oppure, raramente, il progetto, il problema, il caso pratico.

Con il paradosso che la prova più vicina agli studenti è sempre stata la più temuta e toppata. E poi il colloquio, così difficile da salvare nel suo non dover essere la somma di singole interrogazioni e nemmeno un disordinato flusso di coscienza sfilacciato su collegamenti lunari come il flusso delle maree, il diagramma di flusso e il flusso mestruale.

Dal prossimo anno per accedere all’esame sarà necessario aver sostenuto durante l’anno le prove Invalsi in italiano, matematica e inglese, e aver completato le 400 ore di Alternanza scuola lavoro previste per i tecnici e le 200 previste per i Licei. Come entreranno queste attività di Alternanza scuola lavoro, che hanno stritolato la capacità organizzativa delle scuole con risultati a volte esaltanti a volte tremendi, nella valutazione dell’esame ancora non si sa, mentre è certo che non ci sarà la terza prova se non in casi particolari previsti per “specifici indirizzi di studio”, non ancora indicati dal MIUR.

E’ certo anche che questo del 2018 è un esame di stato di un tempo in cui in modo repentino e impensato le parole del potere sembrano polverizzare senza imbarazzo i valori che la Costituzione affida alla scuola pubblica e per i quali la scuola ha ragione di esistere. L’uguaglianza, innanzi tutto: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art. 3). E poi la solidarietà, il ripudio della guerra (anche sociale). La condivisione, la curiosità intellettuale per le culture, l’amore per il mondo multiforme e interrogante, eternamente interrogante sul senso e valore di esistenze la cui sorte sembra incatenata alla geografia della nascita. Privilegio o responsabilità?

E sull’onda di questa attualità gridata, il toto-temi si sposta sull’immigrazione, i rapporti internazionali, la denatalità. I temi della prima prova sono preparati in primavera da una commissione di esperti del MIUR. Se ci sarà l’immigrazione (già data all’esame di stato più volte) è perché si tratta di un evento epocale come molte volte nella storia è stato un evento epocale, non perché è la politica del momento ne ha fatto il totem incantatore del suo parlare.

Non sappiamo quel che sarà il futuro. L’esame di stato promuove quasi tutti da sempre. Cercare di indovinare i temi o il passaparola sulle preferenze dei commissari è un rito e va bene se abbassa l’ansia. Quel che è certo è che la vita è sempre qui e ora insieme ogni nostro gesto e parola lascia il segno per cui c’è un unico consiglio, buono per tutti (noi): poter dire di avere affrontato i giorni e le prove da persona libera, capace di argomentare e non di assecondare l’aria che tira, rinunciando alla tentazione delle parole che colpiscono come clavate e invece cercando di far valere la propria (giovane) personale voce, libera dalla competitività (che ci separa dagli altri e ci rende poveri di collaborazione) e dalla piaggeria.

Poter raccontare con verità questa esperienza.

Da La Repubblica19 giugno 2018.

«Maria, una madre normale che ha servito la vita»

Oggi si conclude il mese di maggio, dedicato alla Madre di Gesù. Di Maria ha scritto nel suo ultimo romanzo (Lei, Guanda) la scrittrice vicentina Mariapia Veladiano, convinta che Maria insegni qualcosa ad ogni donna, non solo madre, e ad ogni coppia. 

Mariapia, perché Maria è un esempio per tutti, non solo per donne e madri?

«Avere a cuore le cose del mondo è qualcosa che va al di là dell’avere o non avere bambini. E non penso al banale stereotipo che la cura sia delle donne, perché la cura è universale, la responsabilità è universale. Infatti nel mio libro Giuseppe esercita la stessa cura di Maria nei confronti di Gesù. La modalità è diversa, quasi più buia, perché non ha avuto l’Annunciazione; Giuseppe si prende cura di Gesù per fiducia, responsabilità, amore. Entrambi esercitano quest’arte che non legherei al fatto di avere o non avere un bambino, perché il fondamento è essere un’unica umanità. È chiaro che se si assume la responsabilità di “chiamare al mondo” una creatura, alcune cose si sentono molto di più. Maria è stata una madre normale che ha avuto le paure di tutte le madri, ma le ha superate»

C’è solo un piccolo particolare: lei è la madre di Dio. Che differenza c’è tra l’essere madre di un uomo e madre di Dio?

«È la domanda delle domande. Nel romanzo Maria ha la percezione che, “a volte sembrava che, per Gesù, non fosse sufficiente essere nostro figlio”. Io penso a lei come ad una madre normale che nell’arco del suo percorso scopre che “la vita è servire la vita”. Occupandosi di un bambino speciale si scopre speciale. È un percorso che tutte dobbiamo fare».

“Solo chi non sa niente dell’amore può pensarmi sola il giorno dell’angelo” dice Maria nel suo libro. Ed ecco che torna la figura di Giuseppe.

«Solo una teologia quasi esclusivamente maschile è molto preoccupata di allontanare Giuseppe da Maria subito, per preservarne non tanto la verginità, quanto l’unicità di Gesù. La presenza del falegname, attestata dai Vangeli, ha creato imbarazzo. Ne è stata anche modificata l’immagine: nel Vangelo non c’è scritto che Giuseppe fosse vecchio».

Maria che moglie è?

«Maria ha almeno trent’anni di vita coniugale. Non avevo grandi appigli sui Vangeli, ma li ho immaginati complici quando sono coricati, si confrontano e supportano a vicenda di notte, stesi, come fanno tutte le coppie. Maria non è sola, la solitudine non è la misura dell’uomo. Se si è soli la paura è amplificata, insieme la paura fa meno paura. Maria sa che Giuseppe capirà. Sa che sono in due».

Gesù è un bambino speciale ha ripetuto più volte. Che cosa insegna Maria alle madri di un bambino speciale?

«Le persone, scrivo nel libro, “ogni giorno misurano la normalità di Gesù”. Tutti facciamo così. Basta che un bambino esca un attimo dal canone. Che poi, qual è il canone universale dell’essere bambino? Non c’è. Dipenda dalla cultura, dal Paese di provenienza, dal tempo in cui si è vissuti. I bambini chiedono di essere visti. Oggi purtroppo manca il tempo, davvero i genitori non vedono e prevale la paura del futuro perché non crediamo più che il futuro sia migliore del passato. Siamo quindi convinti che la soluzione migliore sia la protezione. Il figlio diventa un problema da proteggere e non va bene. La prima cosa che devono avere i figli è una vita tutta loro».

Quando lei si è scoperta incinta come ha reagito?

«Ho avuto una folgorazione, un cambiamento di prospettiva circa il bimbo che avevo. Una volta che si è annunciato era chiaramente autonomo da me. Non potevo cambiarlo più, era maschio, aveva i capelli e gli occhi di un certo colore, eventuali anomalie. Non è che se covavo meglio mi veniva meglio, oppure meglio come volevo io. Avevo un unico potere negativo che era quello di fargli del male. Il figlio è altro da te. Non è di tua proprietà. È un messaggio fortissimo a tutti i genitori. Per Maria il bambino è davvero arrivato inatteso, in un contesto difficile come spesso accade oggi».

A lei, Maria che cosa ha insegnato?

«Maria, quand’ero piccola, non mi stava molto simpatica. Avevo un’immagine stereotipata, della donna del sì. E mi pareva remissiva. È stata una riscoperta legata a quando sono diventata grande e ho capito qualcosa dell’amore. Ho capito che tutta la storia di Maria è partita perché era con Giuseppe fin dall’inizio».

Maria può “aiutare” tutte le madri che hanno perso un figlio.

«“Non mi era stato permesso di morire per lui” dice, ed è quello che ogni madre pensa. Maria arriva alla morte di Gesù, non sapendo della Resurrezione, almeno non con certezza. Suo figlio era davvero morto, è diventato bianco tra le sue braccia. La mattina della Resurrezione dorme e non è al Sepolcro. Questo è molto umano: si addormenta perché scopre che quell’amore che li aveva legati ha una pretesa di eternità fin dall’inizio. Gesù è ancora vivo, è ancora con lei. Non va al sepolcro perché non ha bisogno di vedere, lei lo sa».

Lei porta il suo nome. Questo come la fa sentire?

«Io credo nel potere dei nomi. Il mio è composto; Maria è molto bello da solo. Sento tutti i sentimenti di grande responsabilità verso la vita».

Da La voce dei Berici, 31 maggio 2018

che cos’è la fede cristiana? La poetica e la fede di Flannery O’Connor

Quando si scrive di Flannery O’Connor si comincia e si continua e poi si finisce con ampie citazioni di Flannery O’Connor stessa, come se di lei potesse parlare solo lei. Una figura per cui mancano categorie e bisogna accogliere quelle con cui lei si consegna, tranchant e libera fino all’impertinenza: «Vedo le cose dal punto di vista dell’ortodossia cristiana. Questo significa che per me il significato della vita è accentrato nella nostra redenzione attraverso Cristo e quello che vedo nel mondo lo vedo in rapporto a questo». Nel suo Diario, a poco più che vent’anni pregava Dio affinché i principi cristiani permeassero la sua scrittura (cf. Regno-att. 10,2016,295).

È raro trovare professioni di poetica così determinate e allora vien naturale cercare nelle sue narrazioni (poche, due romanzi e una manciata di racconti) qualcosa d’intimamente militante, un storia in cui pur nella congestione delle azioni e dei gesti e degli eventi alla fine il male non sia l’ultima parola. Perché, vien da dire, è questa la fede cristiana, giusto? Che il male non è l’ultima parola.

Così seguiamo Hazel Motes, il protagonista de La saggezza nel sangue (Garzanti, Milano 2010) appena rilasciato dall’esercito, mentre viaggia in treno verso Taulkinham, cittadina che alla fine del romanzo ci è entrata dentro come una pece che incolla i piedi ai marciapiedi e la fatica di percorrerli dice tutta l’assurdità di tentare di vivere.

Eppure Hazel li percorre e di volta in volta sceglie le persone e le situazioni che gli arrivano incontro e così s’accompagna a un’orribile prostituta il cui indirizzo ha visto per caso nel bagno della stazione, accolto in casa sua, e  poi insegue un predicatore finto cieco che chiede l’elemosina e lascia che la sua figlia quasi bambina si infili nel suo letto, e acquista un’automobile che vede come materiale promessa di arrivare dritto esattamente ovunque, lancia la sua predicazione della Chiesa della verità senza Gesù Cristo crocefisso dal tetto di questa automobile aspettando i proseliti all’uscita delle sale cinematografiche, distratti luoghi di missione che la modernità gli concede, incrocia il giovane Enoch guardiano dello zoo, segreto adoratore di una mummia di omuncolo custodita in una teca precaria del museo, sicuro come Hazel, sicuro di una missione da compiere, forte di una saggezza che gli dà il suo sangue perché «aveva il sangue che la sapeva lunga» (69).

C’è da dire che ci si dimentica subito di cercare tracce di principi cristiani perché le non-avventure di Hazel sono così bizzarre che pagina dopo pagina le si insegue trascinati senza pensieri e senza quasi attese, portati solo a vedere dove va a finire. E finisce che Hazel ucciderà l’uomo che aveva trasformato in business il suo sincero predicare dal tetto dell’auto. Falso nell’assurdo vestito azzurro che aveva copiato da Hazel, e nel predicare funzionale solo a truffare gli ascoltatori. Lo investirà con l’auto sacramento di salvezza, con determinazione, passando e ripassando sul suo corpo.

Tutto ciò che di esplicitamente religioso troviamo nel libro è tremendo e insopportabile. Il religioso si sottrae completamente al racconto e lascia esistere un mondo che si agita violento o miserabile senza che niente, ciascuno si agita truffaldino o sincero per arrivare alla fine di una giornata senza promessa.

Ma quando Hazel Motes uccide il profeta impostore che aveva sfruttato commercialmente la sua autentica furia predicatoria e ci sembra un mostro, allora viene in mente il suo incontro, nelle prime pagine del romanzo, con l’orribile signora Wally Bee Hitchcock che, seduta di fronte a lui nello spazio angusto del compartimento a cuccette, lo soffoca di ovvietà infilate in sequenza feroce: le prime luci della sera sono «il momento più carino» del giorno (11); «il tetto natio è il paradiso in terra» (13) e siamo sicuri che è quella signora sicuramente devota e perbene a cui Hazel Motes dice «sicuramente si crede d’esser stata redenta» il vero mostro.

Una vita di devozioni, sacre riunioni, quelle giuste non una di più, e niente nessun pensiero e nessuna azione è stata redenta, è diventata libera. Divina e quindi libera. E insieme a lei migliaia di cristiani che hanno pensieri banali disseminati in copia conforme a quelli di tutti, intorno.

In che cosa è cristiano questo romanzo di Flannery O’Connor? Ce lo dobbiamo chiedere perché lei questo voleva scrivere, romanzi cristiani. Forse nella perfetta operazione di lasciare intatto il mistero di un mondo che in nessuna sua parte appare redento. Gesù nasce e gli innocenti sono passati di spada dagli uomini di Erode. La notizia non è che il male è finito. Il mondo è quello che è. Non si crede e allora la propria vita viene consolata.

Non si crede sperando che la propria vita venga consolata. Non si crede per eliminare il male dal mondo. Si crede e la vita è quella che è, piena di oscurità, non senso, violenza. Credere non apre la porta del paradiso in terra. Si è cristiani proprio malgrado, incollati a Cristo. Come Hazel Motes che passa le giornate e le notti inseparabile dal Cristo che deve continuamente chiamare in causa nel suo ossessivo predicare la Chiesa della verità senza Gesù Cristo crocefisso, Chiesa nemmeno nominabile senza Cristo nel nome.

Da Il Regno, 15 maggio 2018.