Una scuola da ragazzi: Napoli, le classi di strada che danno lezioni di speranza
C’è oggi una ferocia emotiva che accompagna il parlare di scuola, una battaglia di censure, giudizi, illazioni. Un criticare gli insegnanti comunque incapaci, i programmi arcaici, gli studenti accidiosi, il tutto dall’angolo ben protetto del proprio chiamarsi fuori. Ma la scuola non sopporta il chiamarsi fuori di nessuno perché non è lo spazio di un altrove estraneo alla sorprendente varietà della vita.
Questo libro di Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio, pagg. 272, euro 14) racconta la quotidianità di una scuola totale, potente, civile, salvifica. Si tratta di undici anni di Progetto Chance, un’ esperienza nata a Napoli nel 1998 dalla realtà dei “maestri di strada”, la cui voce più nota è quella di Marco Rossi Doria, e rivolta ad adolescenti con una storia di dispersione scolastica e di disagio sociale.
Carla Melazzini parla in prima persona, da insegnante che in Chance ha messo tutta la sua professionalità. E insieme parla con quella riflessività vigile ed empatica che è necessaria per poter leggere quel che ci succede e poi condividerlo. Perché non rappresenti solo l’ esito felice di un’ esperienza singolare. Ed è certo singolare ed estrema l’ esperienza di Chance, perché nasce nel contesto estremo dei Quartieri Spagnoli, di S. Giovanni, di Soccavo a Napoli. Ma quel che là ci arriva addosso con la durezza dell’ evidenza è in tutto simile a quel che succede con dinamiche magari più composte e nascoste in tutte le scuole. Succede che gli adolescenti portano tra i banchi le loro vite. E così può arrivare in classe il principe di Danimarca, nella figura fragilee aggressiva di Mimmo, 15 anni, che è sicuro di dover uccidere l’uomo per il quale la madre ha abbandonato di schianto una mattina lui e i suoi quattro fratelli, e finché l’emozione di questo imperativo assoluto domina il giovanissimo Amleto napoletano, non c’ è lo spazio interiore per “imparare” ciò che i programmi gli chiedono. E viene bocciato e ancora bocciato e rinviato alla solitaria realizzazione del suo progetto di morte, propria e altrui.
La figura dell’ “allontanamento” dalla scuola è la rappresentazione di un fallimento che diventa devastante per la persona e subito dopo per la società, contro la quale può rivolgersi la violenza che non ha trovato le parole per dirsi e superarsi. Come si fa allora? Si accoglie, scrive Carla Melazzini, si accoglie la forma scomposta, ogni volta imprevedibile, multiforme in cui le angosce e le paure dei ragazzi si esprimono: turpiloquio, minaccia, disinteresse, aggressività. E insieme ci si sorveglia sulle nostre reazioni, spesso di difesa sul principio, perché le loro paure incrociano le nostre e non è male quando questo accade, perché vuol dire che il rapporto c’è, che è rotto l’ incantamento perverso che governa il bon ton di tanta vita d’ aula: il “facciamo finta che”.
Che davvero gli studenti ascoltino diligentemente per cinque ore i docenti che parlano. Che davvero pensino ciò che scrivono nei loro compiacenti temi in classe. «L’ insegnante deve imparare la dura arte del dialogare», scrive Carla Melazzini, e il dialogo non tollera l’ irrilevanza di uno degli interlocutori. E qui l’ accusa verso la società adulta dalla quale i ragazzi si sentono considerati estranei, insignificanti e in stato di minorità, arriva attraverso le parole di un allievo il cui parlare sgrammaticato dice insieme il fallimento di questa società: «Gli adulti si impadronano della nostra vita». E ancora ci si chiede: che fare? Bisogna ascoltare, riflettere e riparare: «Le cose migliori nascono dalla riflessionee dalla riparazione degli errori». Tante tante volte ricorre il termine riparare nel libro. A dire che i pezzi possono essere ricomposti, che non c’ è un destino scritto come piacerebbe alla nostra coscienza omissiva.E infatti Mimmo alla fine rinuncia a usare il coltello che il quarto giorno aveva esibito minaccioso.
E la scuola diventa lo spazio di una dissociazione possibile dal modello violento del contesto da cui i ragazzi provengono. Un luogo in cui si impara ad “allentare le maglie della paura e dell’ odio”. La scuola può essere anche così: un turbine di dare e ricevere, di sbagliare e correggersi, di dirsi, ferirsi, perdonarsi. Quel che succede quando ci si incontra e ci si vede davvero e niente resta più come prima.
Non è un libro solo di scuola questo meravigliosamente scritto da Carla Melazzini. E’ per tutti gli adulti che credono davvero di avere una responsabilità in quel che accade intorno a loro. E’ un libro di nuda onestà. E’ tremendo nell’accusare le perversioni di certa scuola tradizionale che non sa leggere i propri fallimenti (le invettive contro il liceo classico, “obitorio della scuola italiana”, non rendono giustizia alla passione di tanti docenti che ci lavorano, ma hanno la crudezza di un avvertimento biblico: attenti, può succedere a chiunque di perdersi). E’ commovente, malinconico, struggente nel riconoscere come nella scuola sia in gioco la vita, tante vite. Dice insieme la felicità di insegnare e di imparare.
E del resto non si può parlar di scuola con distacco. Il male è grande e c’ è nella scrittura di Carla Melazzini un credere ed operare quasi contro ogni speranza. E questo è qualcosa che si può fare solo insieme. Insieme ad altri adulti che non si arrendono. E a ragazzi che imparano il loro valore. Carla Melazzini non c’ è più. Il libro si chiude con il ritratto immenso che Cesare Moreno, marito e compagno nell’ avventura di Chance e nella vita, le dedicò nel giorno in cui lei se ne andò. Maestri e professori sanno bene che non è vero che nella nostra scuola, come ha scritto disperatamente uno studente di Chance con il dolore di una ferita non ancora riparata, “tutto è più sbagliato di quanto già sembri”. Però ci si deve bene attrezzare a farsi carico di giovanissimi tragici principi di Danimarca che vorrebbero solo una vita normale.
La Repubblica, 21 luglio 2011
Nessun commento