La terra a volte si apre istantanea. Se capita è un dramma. Esce il fuoco, sprofonda il mondo e porta con sé anime sorprese, impreparate all’improvviso eterno andare.
I crepacci danno meno allarmi, son lì da tanto, si possono addirittura guardare, ma bisogna che qualcuno ce li abbia insegnati. Poi si può camminare. Insieme o da soli, sapere ci fa scampare.
Se le crepe son dei muri, lì c’è una storia da raccontare, e il danno si può riparare, con i ricordi o con le parole, e spesso ci vogliono anche le mani.
E a stringerle, forti e a volte spaccate, si sente tutto intero quello che hanno vissuto, e vien voglia di lisciarle, come le pieghe di un letto insieme disfatto.
Poi sappiamo di metafore, e le crepe nei rapporti buttano più sangue di una ferita d’accetta. E si crede che sia finita, mai più per noi le ore allegre delle attese.
Allora che si fa?
Poi guardiamo un giorno chiaro e vediamo con l’anima, sì, ancora sorpresa, che nelle crepe crescono l’alisso delicato, l’arabide immacolata, l’artemisia d’oro, la rossa valeriana. E l’ombelico di venere, mille felci abbarbicate, e anche i capperi, e chissà come, spesso, le loro crepe son di mura di castelli. Altre storie da ascoltare. Lunghe, tenaci e vive. A volerle raccontare.
Avvenire, 15 giugno 2012
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