Forse conoscono le nostre brame, ma di certo sono più esperti di paure.
Sono dappertutto: in camera, e ci sta, in bagno, e ancora va bene, in atrio, in salotto, dentro l’anta dell’armadio, dietro la porta del garage, in ascensore, in auto sul tergisole e quasi ci si scaravolta, negli astucci delle ragazze a scuola, e dei ragazzi per equità, e poi in borsa, in corsa sul tram dell’università, e nel cassetto del lavoro, e poi smilzo e stretto sul retro del rossetto, e della copertina dura di un diario, ancora di scuola, e nello zainetto, dove spenzola al passo, riflettendo a volte il cielo a volte la terra. Tutti lì a guardarsi, un vedersi senza gioia. Pauroso moltiplicarsi di un sé giovane e adulto e sempre più adulto e poi vecchio che non trova pace.
Un guardar solo se stessi. Il mondo intorno scorre, entra ed esce dal nostro vedere riflesso, ora un passante, talvolta un amante, più a lungo un figlio se viene. A tutto dar le spalle, senza parer di volere e come fosse normale.
E quel che appare e scompare alla fine è solo virtuale. È per me infine lo specchio, per la mia vita così curata, evitata, detestata, solo in frammento sentita.
Se gli specchi si rompono si parla di maledizione. Ma è più vero che si tratta di una liberazione. Cadono in terra e così finalmente il cielo lo vediamo.
Avvenire, 10 giugno 2012
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