Non si fa mancare nulla di nulla chi invidia. Si occupa di scarpe, automobili, libri, orologi, collane e mariti, o mogli. Livido figurante del potere, visto che non è dio si affatica, si estenua, fa pratica di malvagità su tutto quel che lo circonda, umiliare il mondo per innalzarsi, senza essere nulla in più, troppo infelice e quindi senza misura cattivo. A non perdersi un batter di ciglia, atomizzato in milioni di inutili attenzioni per carpire, sapere, e giudicare, giudicare, giudicare.
Con un effetto distruttivo, su uomini e cose. Su se stesso per primo, segregato nel pensiero, umiliato dalla vergogna di essere sempre lì, senza distacco possibile dal bene degli altri, da corrodere e irridere. E non poter nemmeno travestire di una qualche nobiltà di parola questo peccato impudico che alla fine non può star nascosto.
Carsismo del male che prima a lungo scorre sotterraneo e ci riempie di caverne in cui annegare l’energia che pure abbiamo, potente, nostra, che intanto declina, nell’avvilimento di non portarci ad essere quel che veramente vogliamo, andare liberi, alzar la fronte e dire all’altro con la simpatia di chi si somiglia: «È forte la tua bufera, la possiamo attraversare insieme?».
«Essere uomini e non essere Dio. Questa è la summa. Non c’è altro» (Lutero).
Avvenire, 1 maggio 2012
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